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Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo, il nuovo, ambizioso museo di Napoli
Musei
La scintillante passerella che conduce verso l’ingresso, i marmi preziosi e ambiziosi tirati a lucido, un po’ ipnotizzando e un po’ abbagliando. La nuova sede delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo a Napoli, in via Toledo 177, nel monumentale edificio storico progettato dall’architetto Marcello Piacentini, che fu già del Banco di Napoli e che sorse su parte del lotto del complesso cinquecentesco di San Giacomo, riesce nell’impresa di non far rimpiangere lo spazio precedente, giusto pochi metri più in là, al civico 185. E contando che si trattava di Palazzo Zevallos Stigliano, eretto in pieno ‘600 da Cosimo Fanzago, leggendario scultore napoletano d’adozione, la fatica era veramente improba.
Anche perché, come sottolineato in più momenti in occasione di una affollata e sentita conferenza stampa, Palazzo Zevallos era diventato negli ultimi anni una meta di primo piano, nell’offerta culturale della città – in particolare per la presenza magniloquente della Sant’Orsola di Caravaggio – ormai sotto assedio dei turisti. «Ma che non sia turismo di massa», ha precisato Dario Franceschini durante il suo intervento, ricordando come sia importante non diluire la specificità del territorio nel roboante calcolo dei grandi numeri. Di certo fanno effetto quelli della corporate collection, che è dislocata sulle sedi di Milano, Vicenza, Napoli e Torino, questa ultima di recentissima apertura: 35mila pezzi – che possono essere alienati solo in caso di difficoltà dell’Istituto Bancario e che, comunque, non possono lasciare l’Italia – per un valore di 850 milioni di euro.
700 sono invece le opere e i reperti, tra archeologia e arte contemporanea, nella sola sede napoletana. Ed è evidente come, nella progettazione della nuova sede delle Gallerie d’Italia Intesa Sanpaolo di Napoli, siano state incrociate due strade, l’una metodologica, per aggiornare il “posizionamento”, la reputation dello spazio verso i grandi poli museali, l’altra di impianto caratterizzante, per legare la proposta alla città e all’area mediterranea in senso più ampio.
Museale perché l’allestimento delle sezioni, dal ‘600 all’arte contemporanea, con un bel focus sull’archeologia, è solidamente curato e suggestivo. Il progetto di rifunzionalizzazione di Palazzo Piacentini, realizzato da Michele De Lucchi – AMDL Circle, ha triplicato gli spazi espositivi, rispetto a quelli di Palazzo Zevallos, con l’obiettivo di rendere la fruizione più organica, consequenziale, museale appunto. Che poi, da sempre le Gallerie d’Italia di Napoli hanno agito a stretto contatto con le istituzioni culturali della città. La presenza di vari direttori in platea, da Marta Ragozzino, Direttore regionale Musei Campania, a Sylvain Bellenger, Museo e Real Bosco di Capodimonte, da Paolo Giulierini, MANN – Museo Archeologico Nazionale, a Gabriel Zuchtriegel, Parco Archeologico di Pompei, rappresenta la promessa di un dialogo che vorrà essere approfondito.
Ancora i numeri aiutano a rendere l’idea: cinque i piani, con una superficie di circa 10mila metri quadrati, di cui 4mila dedicati ai percorsi espositivi. Tanti ma non tantissimi, in considerazione del numero di opere esposte che, un po’ troppo “ravvicinate”, si fruiscono con un lieve affanno. Soprattutto in certe sale, come quella dedicata al campione della scultura napoletana di fine ‘800, Vincenzo Gemito, anche troppo ricca di splendidi disegni, dagli autoritratti pieni di vita alla sensuale Ragazza Napoletana, ma anche di teste e busti ai quali bisogna prestare la massima attenzione (per non urtarli e creare un drammatico e virale effetto domino).
Al primo piano, dunque, la sezione del museo curata da Fernando Mazzocca presenta una selezione di dipinti e sculture principalmente di ambito napoletano e meridionale, del periodo che va dagli inizi del XVII ai primi decenni del XX secolo, di autori come, tra gli altri, Franz Ludwig Catel, Anton Smink Pitloo, Giacinto Gigante, Nicola Palizzi, Domenico Morelli, Federico Rossano, Gioacchino Toma, Francesco Mancini, Vincenzo Migliaro. Le sale affrontano diversi temi e generi tipici della storia dell’arte locale, nella quale però si riverberano le coeve ricerche internazionali, dalle vibranti nature morte al Paesaggismo all’aria aperta delle Scuole di Resina e di Posillipo.
Chiaramente i riflettori sono puntati sul capolavoro assoluto delle collezioni, il Martirio di sant’Orsola, che fu commissionato dal banchiere genovese Marcantonio Doria a Caravaggio, che lo realizzò a Napoli in fretta e furia, prima della partenza fatale per Porto Ercole. La sala è scenograficamente lasciata in penombra e, contrariamente a quanto accadeva per la precedente sistemazione a Palazzo Zevallos, è in dialogo con altre opere stilisticamente e cronologicamente affini, di Artemisia, Finson, Vouet e Biagio Manzoni.
Sul contrasto tra ombre e luci gioca anche la sezione archeologica, al secondo piano, dove troviamo le ceramiche attiche e magnogreche, con 500 esemplari della storica collezione Caputi, trasferita da Vicenza a Napoli in accordo con le Soprintendenze competenti. Si tratta principalmente di vasi dipinti realizzati ad Atene, in Apulia e in Lucania, tra il VI e il III secolo a.C. e, tra i meravigliosi reperti, presentati in bacheche muscolari di vetro temperato e acciaio – allestimento curato da Fabrizio Paolucci – spicca la celebre Hydria Attica, raffigurante ceramografi al lavoro. Alcuni reperti esposti provengono poi dalle collezioni del Museo Archeologico.
E ancora un passaggio repentino di atmosfera caratterizza la sezione dedicata al Novecento, ideata da Luca Massimo Barbero, curatore associato della collezione d’arte moderna e contemporanea di Intesa Sanpaolo. Dalla prima sala con le luci soffuse, dedicata alle diverse espressioni del monocromo bianco – Alberto Burri, Piero Manzoni, Castellani, Fontana, Vantongerloo – all’esplosione di colori del secondo ambiente nel quale, attraverso le opere di Afro, Richter e Rotella, tra gli altri, assistiamo al passaggio fluido tra la pittura e il gesto. Si affonda quindi nella bellezza del quotidiano, con la Pop Art di Aldo Mondino, Mario Schifano, Giosetta Fioroni, Tatafiore, e si passa per il Concettuale e l’Arte Povera, con le mappe di Alighieri Boetti e con Zorio, Mario Merz, Paolini, per chiude con l’iconico specchio di Pistoletto e un bellissimo Wall Drawing di Sol Lewitt, realizzato chiaramente con il permesso dell’Estate di Sol Lewitt, oltre che con due Vesuvius di Andy Warhol e una lunga e sottile teoria di fotografie di Luigi Ghirri.
Al piano terra, infine, la mostra che conclude la XIX edizione di “Restituzioni”, il programma di restauri di opere appartenenti al patrimonio artistico italiano, curato e promosso da Intesa Sanpaolo. In esposizione nello spazio dedicato alle temporanee, di circa mille metri quadrati, 200 pezzi, dall’antichità al contemporaneo, con il coinvolgimento di 80 laboratori di restauro e 54 enti di tutela. Tra i patrimoni d’arte restituiti, opere di Antonello da Messina, Giovanni Bellini, Cima da Conegliano, Bronzino, Giulio Romano, Romanino, Manet, Umberto Boccioni, Pellizza da Volpedo.
E visto che un museo deve ristorare anche il corpo, oltre che lo spirito, immancabile anche la caffetteria – bistrot, di prossima apertura e accessibile al piano terra, con gli arredi in noce e ottone e tre palchetti rialzati a creare angoli discreti, per permettere di godere delle alte finestre affacciate su via Toledo. All’ultimo piano, dalla terrazza panoramica con vista sul Golfo e sulla Certosa di San Martino, un lounge bar e il ristorante fine dining. A curare la proposta gastronomica, lo stellato Giuseppe Iannotti.
Non servono commenti.
È tutto di una bellezza direi commovente.
Opere presentate con una luce unica.
Una grande bellezza.
Non aggiungo altro.