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Giorgio Persano: cinquant’anni e oltre di galleria, in mostra
Arte contemporanea
Per festeggiare i suoi cinquant’anni di attività, nel 2020 inaugurava una nuova sede espositiva a via degli Stampatori. Dal 1968, l’anno in cui conosce gli artisti dell’Arte Povera, al 1970, quando apriva il suo primo spazio al rientro da un viaggio a New York dove avvenne, invece, la conoscenza della Pop Art americana, ad oggi, Giorgio Persano ha sempre coltivato quegli artisti che il compianto critico Germano Celant raccolse sotto la celeberrima definizione di Arte Povera. Seppure la mostra approntata nell’Istituto Italiano di Cultura di Madrid voglia gettare uno sguardo sull’arte italiana dal 1970 al 2021, indicando quelle “tracce” artistiche italiche, ovviamente a far la parte da leone nell’esposizione “Tracce/Huellas | Arte italiana. Opere della galleria Giorgio Persano 1970 – 2021” sono principalmente loro, gli artisti dell’Arte Povera, sebbene siano presenti anche lavori della Transavanguardia.
Visitabile fino al 4 giugno, nelle sale del palazzo madrileno, situato su Calle Mayor, una delle vie storicamente più importanti della capitale spagnola, la mostra raccoglie una discreta selezione di opere moltiplicate prodotte proprio da Giorgio Persano all’inizio della sua brillante attività (che oggi conta nel suo parterre ben oltre settanta artisti e che, nel 2017, aveva già calcato questi spazi con la mostra Tra le linee dei miei confini di Lina Fucà). Non dimentichiamo, infatti, che il primo spazio espositivo aperto dal gallerista/collezionista (da giovanissimo, infatti, ha iniziato a collezionare acquistando un lavoro di Mario Merz e uno di Gilberto Zorio) in via della Rocca, si chiamava Multipli, a sottolineare, per l’appunto, la sua attività centrata sull’esposizione grafica della Pop Art americana e i multipli prodotti con gli artisti torinesi, con costi contenuti affinché fossero facilmente abbordabili da un maggior numero di appassionati. Nonostante all’estero l’arte italiana sembra essersi fermata all’Arte Povera (perché è fervida la volontà di farla conoscere al più ampio pubblico possibile), quest’esposizione ha il pregio di mostrare alcuni bei e potenti lavori di quel fulgido periodo (seppure alcuni siano poco incisivi).
Di contro, risulta essere un po’ avara nell’esibire lavori che coprano tutti gli anni dell’arco di tempo indicato dal titolo, 1970-2021. Il lungo elenco degli artisti presentati va, infatti, da Giovanni Anselmo, Marco Bagnoli, Pier Paolo Calzolari, Nicola De Maria, a Marco Gastini, Jannis Kounellis, Mario Merz, Nunzio, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Alfredo Romano, Salvo, Michele Zaza e Gilberto Zorio. L’impresa di rappresentare le ultime generazioni e ricerche, testimoniando l’attenzione da parte del gallerista alla sperimentazione e innovazione, è stata affidata a Lina Fucà, Paolo Cirio e Alessandro Sciaraffa. Ad aprire il percorso espositivo che, per l’architettura stessa del palazzo, in pratica si distingue in due sezioni, è un lavoro di notevoli dimensioni di Mario Merz.
Nella stessa grande sala si possono ammirare l’accattivante Pane alfabeto in acciaio di oltre un metro e mezzo accompagnato da una fotografia con del pane posto tra la terra, beccato da piccioni, di Giuseppe Penone. Affiancato dall’altrettanto suggestivo Senza Titolo/Lasciare il posto di Pier Paolo Calzolari, dove, come ci ha abituati l’artista, a predominare è il bianco della brina che ricopre la piccola panca su cui poggiano un paio di oggetti, tra cui una candela accesa; presente altresì con la poetica Senza Titolo/Canto sospeso, dove una rosa campeggia su un candido letto che nettamente contrasta col nero della lavagna posta come testiera. Sempre fedele al suo approccio concettuale, è anche il ritratto Locus Solus frammezzato tra i riquadri bianchi e neri di una scacchiera, di Giulio Paolini. Trattando di Arte Povera, non potevano di certo essere assenti gli immancabili Quadri specchianti (qui presentato uno tra i più recenti Smartphone con una donna ripresa di spalle intenta a osservare lo schermo di un cellulare) e la Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto, composta proprio per questa mostra, con la Venere realizzata in fibra dipinta di bianco. Mentre, sempre puntuale e attuale si presenta il lapidario lemma di Salvo (Idiota).
Invece di Gilberto Zorio è Odio, una pelle di vacca con un marchio a fuoco, pressoché anticipatore delle sue “stelle”. A chiudere questa contenuta e brillante mostra è l’incantevole Totem di Alessandro Sciaraffa, che magistralmente fonde suono, tecnologia e natura.