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Bill Viola a Roma: la parola a Kira Perov, curatrice della mostra
Arte contemporanea
In occasione della retrospettiva di Bill Viola nella Capitale, Valentino Catricalà ha intervistato per noi Kira Perov, curatrice della mostra, moglie dell’artista e direttore esecutivo del Bill Viola Studio.
Bill Viola è noto per la creazione di installazioni video in cui esplora i fenomeni della percezione sensoriale come via per la conoscenza di sé. Le sue opere si concentrano su temi centrali della coscienza e dell’esperienza umana, come la nascita e la morte, ispirandosi alle tradizioni mistiche, in particolare al buddismo zen, al misticismo cristiano e al sufismo islamico. Questi temi sono molto presenti nella mostra da lei curata a Palazzo Bonaparte, “Icons of Light”. Cosa significa questo titolo?
«In Australia sono cresciuta con la cultura russa. Quindi le icone facevano spesso parte del mio campo visivo, sono diventate parte del mio patrimonio. Quando Iole Siena, direttrice di Arthemisia, mi ha suggerito il titolo “Bill Viola: Icons”, mi sono sentita attratta da questo concetto, ma ho voluto aggiungere “luce” per un significato più profondo. L’immagine video è fatta di luce, sia essa proiettata o emessa da uno schermo, e naturalmente molte icone riflettono la luce, poiché sono spesso create con foglie d’oro o mosaici che brillano alla luce delle candele.
Il significato semplice della parola icona è: “un’immagine importante e duratura”; spesso si tratta della rappresentazione di un personaggio sacro o santificato, tradizionalmente usata e venerata nella Chiesa orientale. Quando Bill crea le sue immagini in movimento, soprattutto al rallentatore per enfatizzare le sue osservazioni ravvicinate, sta venerando tutti gli esseri viventi e tutto ciò che ha registrato. Il movimento e il tempo sembrano sospesi mentre sperimentiamo la sua illuminazione artistica sui soggetti».
Con The Greeting (1995), il video con tre donne che rievocano la Visitazione di Pontormo, Bill ha sperimentato un nuovo tipo di lavoro, legato all’arte antica. Può parlare dello sviluppo della sua ricerca in questo periodo?
«A quel punto Bill aveva già utilizzato il rallentatore in molte opere diverse per ottenere effetti diversi. Per oltre un decennio egli ha esplorato l’uso di elementi fisici nelle sue opere e ha creato molte installazioni immersive di grandi dimensioni, come The Stopping Mind (1991), The Sleepers (1992), Slowly Turning Narrative (1992), Tiny Deaths (1993) e Stations (1994). Il padiglione degli Stati Uniti a Venezia ha presentato una nuova serie di sfide per quanto riguarda il progetto architettonico specifico della struttura. Tre dei pezzi della sua mostra dal titolo “Buried Secrets” erano una continuazione dei suoi lavori precedenti, e uno era un pezzo sonoro. Poi venne The Greeting, arrivato da un altro luogo, un allontanamento radicale dalla sua produzione creativa fino a quel momento.
In una libreria Bill notò un libro sui dipinti di Pontormo, in copertina c’era la Visitazione (c. 1528) che attirò subito la sua attenzione. I colori erano intensi, la composizione intrigante e il momento dell’interazione tra le due donne colmo di emozioni: tutto questo suggerì a Bill un nuovo modo di lavorare, una nuova direzione. Poco dopo mentre guidava, vide per caso due donne che si salutavano all’angolo di una strada ed è rimasto incuriosito dalle loro azioni apparentemente semplici.
Nel realizzare questo nuovo lavoro, Bill ha deciso di utilizzare per la prima volta degli attori, perché aveva bisogno di persone esperte in grado di ripetere un’azione performativa che avrebbe richiesto solo 75 secondi. Abbiamo girato in pellicola 35mm, utilizzando una cinepresa speciale che registrava fino a 300 fotogrammi al secondo, in modo che quando la pellicola veniva trasferita in video, una registrazione di un minuto poteva estendersi fino a 10 minuti.
Per la prima volta Bill si è servito anche di uno scenografo per riprodurre la geometria innaturale dell’architettura, per dare una sensazione di realtà inquietante. Non era interessato a ricreare il dipinto di Pontormo (anche se era affascinato dalla forma), né ad affrontare l’argomento. Bill era più interessato a osservare il lento svolgersi delle interazioni tra le tre donne, le loro emozioni e il movimento che loro e il vento disegnavano. Lavorammo con le risorse di Hollywood: direttore della fotografia (Harry Dawson, con cui avremmo lavorato fino al 2013), scenografi, specialisti delle luci, costumisti e affittammo un teatro di posa per girare l’azione. Bill ha dovuto imparare a dirigere, cosa non facile visto che fino ad allora aveva lavorato da solo, spesso con me o con una piccola troupe. E doveva anche imparare a dirigere gli attori».
In The Reflecting Pool (1977-79) una telecamera fissa riprende un uomo che si tuffa in una vasca d’acqua in mezzo alla natura. Durante l’immersione, l’immagine dell’uomo si congela nell’aria mentre l’acqua continua a scorrere e su di essa appaiono le ombre di altre figure. La fine di questo lavoro risale allo stesso anno in cui lei e Bill vi recaste nel deserto del Sahara, in Tunisia, per registrare miraggi. L’acqua è un elemento quasi costante nelle opere di Bill. Qual è il suo significato?
«L’acqua è fluida, come la corrente elettrica. Rappresenta un cambiamento costante, la trasformazione, la trasfigurazione e quel luogo intermedio, l’ignoto. La continuazione della vita, la nascita e il battesimo. È un elemento necessario all’esistenza dei nostri corpi fisici. Rappresenta anche il pericolo, l’annegamento, la morte. È in continuo movimento; come si dice, non si può mai entrare due volte nello stesso fiume. Nelle nostre numerose esperienze di lavoro con l’acqua e con il fuoco, è stato più facile controllare il fuoco. Opere come The Crossing (1996), The Messenger (1996) e Five Angels for the Millennium (2001) utilizzano l’acqua per rappresentarne, nel caso del primo, la forza distruttiva ma poi trasformativa, e in The Crossing e Five Angels la metafora di uno spazio di transizione tra i cicli di vita, morte e nascita.
In Tunisia, sull’arido lago salato Chott el Djerid, nel caldo, registrando ogni giorno i miraggi armati di teleobiettivo, ci siamo costantemente interrogati su cosa sia illusione e cosa realtà. Il paesaggio sembra muoversi e scorrere, come l’acqua. Come ha scritto Bill: “Se si crede che le allucinazioni siano la manifestazione di qualche squilibrio chimico nel cervello, allora i miraggi e le distorsioni del calore del deserto possono essere considerati allucinazioni del paesaggio. È stato come trovarsi fisicamente nel sogno di qualcun altro”».
Che dire di Ancestors (2012), l’opera raffigurante un uomo e una donna che camminano in un vago paesaggio desertico, muovendosi così lentamente e da una distanza tale da sembrare quasi un miraggio. Questa è una delle numerose opere di Bill legate al tema del viaggio. Il viaggio è stato una costante molto presente nella vostra vita. Come ha influenzato il lavoro di Bill?
«La distanza che abbiamo chiesto agli interpreti di “Ancestors” di percorrere era lunga, e con l’uso del teleobiettivo sembrava ancora più lontana. Il lago secco di El Mirage, in California, è vasto e sembra molto antico: quest’area si è prosciugata per un periodo di tempo molto lungo, molte generazioni di persone vi hanno camminato, anche prima che il lago diventasse così arido. Così l’opera è stata intitolata “Ancestors” e sembra davvero che queste persone emergano dai miraggi del paesaggio e si materializzino man mano che si avvicinano. In queste opere, percorrere grandi distanze nel deserto può rappresentare l’intero arco di una vita.
Ogni volta che si viaggia, è come una vita vissuta, con un inizio e una fine. Si torna con nuove e preziose esperienze, che si siano registrate o meno. Nel 1982, quando abbiamo visitato il Ladakh, conosciuto come il piccolo Tibet, nella parte settentrionale dell’India, ai piedi dell’Himalaya, abbiamo portato con noi una macchina fotografica e un registratore audio. Dovevamo fare le valigie leggere, perché il luogo era piuttosto remoto e aperto al turismo solo da poco tempo. Niente telefoni cellulari, niente GPS, solo mappe e comunicazione umana. Il paesaggio era spoglio come la Valle della Morte in California, al di sopra della linea degli alberi a 11.000 piedi, tranne dove gli agricoltori irrigavano da diversi fiumi, tra cui l’Indo. All’interno dei monasteri c’era un’esplosione di colori rosso, verde, giallo, nero; ogni centimetro quadrato era dipinto con Buddha o leader buddisti ancestrali, iniziati che perpetravano rituali praticati da secoli. Questi spazi esterni e interni hanno giocato un ruolo importante nella composizione di molte opere di Bill.
Anni dopo ci recammo con i nostri figli a Dharamsala, nel nord dell’India, la casa del Dalai Lama in esilio, per intervistarlo e sperimentare la vita in questa città di montagna. Abbiamo assistito a monache e monaci che si alzavano prima dell’alba per pregare per il benessere di tutta l’umanità, era il loro “lavoro”, così incredibilmente altruista: ne siamo rimasti profondamente onorati.
Naturalmente anche vivere in Giappone nel 1980-81 è stato trasformativo: conoscere la cultura giapponese è come guardare in un pozzo senza fondo, infinitamente misterioso e profondo. Ognuna delle nostre numerose esperienze di viaggio ha influenzato il lavoro di Billa, in un modo o nell’altro».
In mostra è presente anche la sua opera Martyrs (Earth, Air, Fire, Water), esposta per la prima volta nel maggio 2014 presso la Cattedrale di St. Paul a Londra. Quest’opera raffigura dei martiri progressivamente sopraffatti da una forza naturale. La presenza di elementi naturali è ricorrente nelle opere di Bill, quali sono i loro significati?
«I quattro Martiri – il Martire della Terra, il Martire dell’Aria, il Martire del Fuoco e il Martire dell’Acqua – derivano dall’opera installata nella Cattedrale di San Paolo che lei cita nella sua domanda. Avevamo lavorato spesso con l’acqua e occasionalmente con il fuoco, così ho pensato che i quattro Martiri potessero essere rappresentati su uno sfondo astratto, in un “non luogo”, poiché sono già in fase di transizione, colpiti dalle forze più forti del pianeta, i quattro elementi della natura. Questi elementi non simboleggiano solo la distruzione, ma anche la trasformazione, poiché i quattro protagonisti devono affrontare, e alla fine accettare, la loro morte».
Ci può dire qualcosa in più della mostra a Palazzo Bonaparte?
«Iniziamo il nostro viaggio con una scena che comprende riflessi che appaiono senza una fonte. In The Reflecting Pool per la figura nella parte superiore dell’inquadratura il tempo è sospeso, mentre la vita continua nell’acqua sottostante. La stanza successiva contiene il movimento perpetuo dell’umanità, lungo le generazioni degli antenati e anche attraverso la foresta della vita.
Poi, in Observance, ci troviamo di fronte al dolore e comprendiamo che si tratta di una condizione della vita che tutti portiamo dentro di noi. The Greeting ci esorta a esprimere le emozioni, a esplorare una scena al rallentatore così da catturare ogni dettaglio dei sentimenti e dell’azione. Ascension ci trova immersi in un mondo sottomarino che diventa sempre più reale man mano che continuiamo a guardare.
Nella galleria successiva l’acqua è di nuovo il tema centrale, come nelle tre figure che attraversano la soglia tra la vita e la morte in Three Women e in tre opere adiacenti della serie Water Portraits. Qui le figure rimangono sott’acqua con gli occhi sempre chiusi e senza prendere mai fiato, sospese nel loro ambiente acquatico. Quando arriviamo nell’ultima stanza, siamo testimoni della fase finale della vita e dell’accettazione definitiva della morte.
Seguendo il viaggio di Bill, scopriamo che queste opere ci avvolgono gradualmente in un mondo interiore, di riflessione e forse anche di auto-riflessione. Uscendo dalla mostra, riconosciamo l’edificio tardo rinascimentale di 350 anni in cui ci trovavamo e i suoi cambiamenti nel corso degli anni, avvertiamo che il tempo è sia andato avanti sia si fermato, cristallizzato».