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Ciò che rimane tra memoria e retina: Caimmi e Ceyssens a Bologna
Arte contemporanea
Avvalendosi dell’orizzonte di senso che filtra dal titolo della bipersonale site-specific di Giovanna Caimmi e Patrick Ceyssens — membri di FRAME RESEARCH GROUP facente capo alla PXL-MAD University di Hasselt, gruppo di ricerca che si pone a sostegno di progetti, come il presente, situati all’intersezione tra arti visive, architettura, letteratura e filosofia — chi scrive affida queste prime righe a quel che resta di sedimentato, tra la memoria e la retina, di “What remains / Ciò che rimane”, a cura di Leonardo Regano nell’ex Chiesa di San Mattia a Bologna.
Dinanzi al simposio cui partecipano arte contemporanea e scenografia barocca, l’impressione è di trovarsi di fronte allo scaturire di puro pensiero per immagini. Nell’accostare le cappelle laterali che accolgono i lavori, si è invitati a perlustrare le ombrosità diafane delle stampe su tela voile di Ceyssens, paesaggi memori del sublime; a ben guardare, scopriamo lacerti di figure caravaggesche emergere da questi paradossi della visione, osservabili solo nella distanza, come buie vacuità antimateriche.
Le monumentali carte di Caimmi domandano invece allo sguardo di addensarsi sulle orografie minime delle proprie superfici, dove il disegno a grafite e a carboncino evolve in una impetuosa «fantasticheria supernaturalista” di simboli, fitomorfismi e ibridi, che proliferano dalle pigmentazioni rilasciate da iniziali trasposizioni fotografiche a macchia, tra le trasparenze di “veline intascate”, sui toni del rosa del giallo e del verde che, apposte sul retro delle grandi carte, riecheggiano le cromie della navata fingendosi pittura. Ce ne parla la stessa Caimmi, in questo rapido scambio.
Dai tuoi arazzi di cellulosa si dipanano visioni escatologiche culminanti sull’altare in una sorta di giudizio universale, dominato dall’allegoria di un male ancestrale, un nefasto cane cosmico sedotto o pungolato da larve. Da cosa principia questa scelta?
«Vi è sotteso il funesto momento contemporaneo appena vissuto, che ha certamente irrorato di memento mori tutti i lavori esposti. Mi sono tremati i polsi quando il curatore ha deciso di porre “Il Re del Mondo” sull’altare centrale; i cimiteri sono pieni di artisti che hanno sfidato ciò che non andava toccato. Così, per premunirmi, prima di collocare i quattro metri di disegno del “Re del Mondo”, un lucido bulldog scuro come Ahriman-Lucifero, mi sono premurata di disegnare sul suo retro l’angelo Michele che con la spada punge le terga del demonio. Il pubblico non lo vede ma c’è».
Lucifero è dei “caduti” il principe. Quali sono le cadute, ricorrenti nei titoli, con cui ti sei confrontata?
«Negli anni Settanta nella chiesa era stata ricavata un’autofficina — non di spada, di ferro, di fuoco, ma di Black & Decker muoiono i santi nei tempi moderni — ed è con queste rovine che si incontrano e dialogano le mie opere. “La dernière chute” è la caduta finale, quella dei paramenti, dei sacri apparati, dei simboli religiosi, che sembra produrre le ferite sul petto e sull’inguine dei religiosi affrescati, di disamore lungamente afflitti. Una seconda “Chute” si oppone a questa, ed è caduta di apparati architettonici; come se l’intera volta si fosse dilavata lasciando sulla carta una traccia del suo passaggio».
Innesti contemporanei e spirito barocco del luogo si profondono in irresistibili rimandi. Come si è evoluto questo incontro?
«Delle caratteristiche peculiari, irrinunciabili del barocco, parla Deleuze: «Il Barocco non connota un’essenza, ma una funzione operativa, un tratto: produce di continuo pieghe (…), curva e ricurva le pieghe, le porta all’infinito, piega su piega, piega nella piega (…) inventa l’opera o l’operazione infinita». Nel confronto con le rovine di questa immensa San Mattia, il mio partner Ceyssens ha scelto di non opporsi, di diventare trasparente, integrandone i fantasmi nel proprio lavoro. Io no, io sono per il corpo a corpo. Nelle mie opere emerge una proliferazione di crescita organica, in sé barocca: l’artista barocco addomestica la natura del proprio segno fino a spingerlo all’infinito».