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Pietro Costa (1960), artista italo-americano emigrato nel 1972 oltre oceano, con la mostra personale “/ri.tràt.ti/ /ˈpôrˌtrāts/”, a cura di Chiara Spangaro, espone per la prima volta al Museo di Palazzo Pretorio a Prato un nucleo di opere molto particolari facenti parte della serie “bloodworks” iniziata alla fine degli anni Ottanta e nelle quali si trova una sorta di identificazione tra arte e scienza. Infatti, l’artista si è ripetutamente soffermato sul concetto di ritratto fisico e di ritratto biologico e sulla rappresentazione dell’Io tra comunità e unicità. Tutti questi lavori sono eseguiti con il sangue donato dal soggetto ritratto, utilizzato come pigmento tra due fogli di Mylar, ed elaborati in vario modo. Nel corso degli anni infatti è mutata la modalità di rappresentazione e di composizione delle opere ma il concetto di base non è variato: riflettere sulla traccia biologica che ogni essere umano lascia di sé e sulla corrispondenza con la memoria che ognuno di noi lascia nel mondo, sia essa memoria personale o pubblica.
Costa inizialmente si è chiesto come fare un autoritratto in un esatto tempo e luogo e nel cercare una risposta a questo suo quesito ha attinto al proprio corpo prelevandosi del sangue e aggiungendolo alla vasta gamma di materiali artistici che già usava ponendo così attenzione all’identità di sé e in un secondo momento anche a quella degli altri. La pratica di Costa parte, dunque, dall’autorappresentazione per poi aprirsi verso la rappresentazione degli altri utilizzando il sangue di parenti e amici e poi anche di sconosciuti.
Nel corso dei secoli la scienza, i rituali religiosi e le pratiche artistiche si sono sviluppati e si sono contaminati a vicenda è infatti questo effetto di contaminazione il fulcro che dà vita al lavoro di Pietro Costa. L’artista crea un legame viscerale con le sue opere, realizzando ritratti che catturano l’essenza anche biologica dei suoi soggetti, in cui l’immagine si fonde con la sostanza, fino a diventare un tutt’uno con essa.
Costa sin dagli anni in cui frequentava l’Accademia a New York aveva sentito parlare della Fattoria di Celle e della sua collezione di arte ambientale e ne era sempre stato attratto poiché non sapeva che in Italia esistesse un luogo simile a Storm King Art Center dove la simbiosi tra arte e natura fosse una realtà. Arriva a Celle nel 2018 e vede le opere di Robert Morris, di Alice Aycok e di Richard Serra, artisti con i quali aveva studiato o collaborato negli Stati Uniti e propone a Giuliano Gori di realizzare il ritratto della sua famiglia. Nell’arco di breve tempo vengono eseguite le fotografie, fatti i prelievi di sangue e realizzata Gori Family Portrait (2019), i ritratti di tre generazioni con realtà relazionali simboliche e forti: il padre e il figlio (Giuliano-Paolo, Giuliano-Fabio, Paolo-Pietro, Paolo-Caterina, Paolo-Rosa, Fabio-Tommaso) e la coppia (Fabio-Virginia).
Gori Family Portrait è stato il primo ritratto familiare eseguito da Costa e con questo ha iniziato la sua avventura “pratese” cui poi ha fatto seguito Father and Son I che raffigura lo scrittore Sandro Veronesi e suo figlio Gianni autore anche della composizione Brothers che fa da colonna sonora alla prima sala della mostra.
Oltre a questa visione classica della famiglia talvolta il rapporto tra “fratelli” è dato da individui i cui legami di sangue sono sostituiti da esperienze di vita e questo va a sottolineare quanto possa essere stretto il rapporto di comunità e comunanza. È questo il caso dell’opera Brothers che rappresenta tre ragazzi provenienti dal Ghana che Costa ha incontrato in un centro di accoglienza in Campania. Queste persone non hanno alcun vincolo di consanguineità ma hanno in comune solo la nazionalità la religione, la razza e un’esperienza di vita e per Costa questo è sufficiente per poterli definire “fratelli”.
Del nucleo pratese di opere fanno parte anche Riccardo, Couplings I, Branciforte Family Portrait, Carlo, l’ultimo nato che rappresenta il collezionista Carlo Palli che ha predisposto la donazione dell’opera al museo della città.