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Una danza mélange: Marocco e Brasile al Festival Oriente Occidente
Danza
L’oscillare di una lampadina sospesa sul palcoscenico e, successivamente, di altre da dietro un velario di fili mentre una figura in ombra si muove al suono di una voce accompagnata da una musica araba, aprono lo spettacolo “Oüm” di Fouad Boussouf (in prima nazionale al Festival Oriente Occidente di Rovereto). Si nutre di danze tradizionali e di culture urbane il vocabolario del coreografo franco-marocchino, un felice meticciato di stili, generi e discipline artistiche ormai integrate e frequenti nelle creazioni dei coreografi di diversa provenienza geografica dell’area mediterranea trapiantati da anni in Europa, soprattutto in Francia. Come il caso di Boussouf, anche lui espressione di una società multietnica e globalizzata, alla guida, dal 2010, della sua Compagnie Massala, e di recente, nominato direttore del Centre Chorégraphique National di Le Havre, in Normandia. “Oüm” segue “Transe” e “Näss”, ultima creazione dell’artista che conclude una trilogia dedicata al mondo arabo, alle radici della sua cultura.
In “Oüm” Boussouf omaggia l’iconica cantante egiziana Oum Kalthoum, e lo scrittore filosofo e astronomo persiano Omar Khayyam, del quale Kalthoum cantò quelle poesie che celebravano lo stato di trance. Quel senso di rapimento, ma innescato dentro movimenti concreti, lo esprimono i sei energici danzatori con una danza vigorosa, fluida, acrobatica, tra momenti di vivacità e di tregua, di sequenze individuali e di gruppo, sollecitati dall’affascinante melodia del canto e dai suoni percussivi live, con il sound della chitarra elettrica che si mescola a quello delle corde dell’Oud, antichissimo liuto.
Passi rielaborati di danze folk accennate si fondono e sfumano con l’hip-hop e il lessico contemporaneo, il modern-jazz, la breakdance, e brevi rotazioni da dervisci: un mélange avvincente per ritmo e festosità, che però tradisce la mancanza di un più strutturato filo drammaturgico.
È quello che ci sembra manchi pure allo spettacolo della brasiliana Lia Rodrigues Companhia de Dancas, “Encantado”. Spettacolo, senza dubbio, ammaliante, visivamente stupefacente per quella distesa di coperte coloratissime (un centinaio), con disegni sgargianti di animali, fiori, piante, paesaggi: una natura tropicale in continua trasformazione grazie all’uso che ne fanno i performer indossandole e rotolandosele in diverse parti del corpo, strisciandovi sotto, assumendo curiose pose coi copricapi, dando forma a bizzarre e metamorfiche creature umane e animalesche, a scene di tribù, con ironiche posture allungate, buffe o irriverenti.
Dall’entrata iniziale dei danzatori nudi che srotolano l’enorme tappeto, quello che segue è una passerella da cartoline di un Brasile incontaminato nella sua bellezza naturalistica, un ecosistema animato da spiriti magici evocati dal titolo – gli encantados della mitologia brasiliana sono spiriti dal potere curativo – ma anche entità del mondo afroamericano. E la danza dalle atmosfere afro è animata da quel ritmo che gradualmente cresce nei corpi sensuali o sgraziati dei danzatori accompagnati dall’esotica musica di un canto del popolo Guaranì, con un suono percussivo e di voci, crescente e ripetitivo.
Se “Encantado” voleva anche essere – come in altri spettacoli di Lia Rodrigues dove l’aspetto sociale è sempre presente – un atto di denuncia della fragilità dell’ecosistema amazzonico che la deforestazione ha accentuato, qui non ne con cogliamo la portata. Rimane un fantasioso, bizzarro patchwork che rallegra gli occhi. Un dinamico rito collettivo, un gioco festoso, con l’energia ancestrale della danza. Ma niente di più.