19 ottobre 2022

exibart prize incontra Giovanni Zoda

di

Ricerco e rielaboro, tramite la rappresentazione simbolica, la realtà intima e simbiotica tra corpo e natura.

 

Qual è stato il tuo percorso artistico?

Rispondere a questa domanda mi porta ad intervistare una parte del mio passato, come se fossi spostato in un remoto altrove costituito da un riverbero di vissuto. Quello che ho raccontato nel mio primo ciclo di opere è un viaggio attraverso le suggestioni provate, generate inizialmente da un oriente fatto di colori, di maschere e di natura le quali desiderano un ritorno a qualcosa di familiare, di ancestrale, vago e indefinito. Studiare il Giappone e poterlo astrarre, attraverso il palcoscenico su cui il simbolo si pone e agisce, mi ha condotto ad un mondo caleidoscopico, composto da figure ieratiche che dialogano con il creato. La messa in scena di queste suggestioni mi ha permesso di esporre in gallerie e in musei pubblici, sia in Italia sia all’estero, ma soprattutto il linguaggio dell’arte ha raggiunto, parlato e fatto pensare chi si è accostato alle mie opere. Come una gradazione cromatica la successione del mio lavoro, negli anni, muta nella raffigurazione simbolica. Nell’attuale produzione di opere, i miei lavori assumono la sembianza di una terra desolata come fosse uno sconfinato abisso; qui una memoria arcaica, inenarrabile, coglie reperti e tracce di una archeologia dell’anima che è insieme familiare e sconosciuta: ci costringe a guardare per guardarci.
Sostanzialmente rappresento una dimensione atemporale che si mostra nella complessità di un mondo in cui i personaggi appaiono talvolta eccentrici e avulsi dal contesto, talvolta in simbiotica intimità con il paesaggio.

 

Quali sono gli elementi principali del tuo lavoro?

Ricerco e rielaboro, tramite la rappresentazione simbolica, la realtà intima e simbiotica tra corpo e natura. Nei secoli l’esistenza umana e il suo paesaggio sono stati declinati attraverso le arti, la filosofia, la scienza e le religioni. Ancora oggi questa riflessione è molto attuale e nel mio lavoro rappresenta un’agonia, nel senso di una lotta per “esserci” e riorientarsi. L’uomo, come Mercurio, è un messaggero che ruba alla natura e, come Saturno, è un insoddisfatto e lento ricercatore. Proprio nel paesaggio, l’essere umano, legge la natura del corpo come riflesso del corpo della natura.

 

In quale modo secondo te l’arte può interagire con la società, diventando strumento di riflessione e spinta al cambiamento?

In questa epoca le possibilità espressive sono innumerevoli, perché l’era digitale unita a quella analogica permettono di creare una struttura multimediale, in cui dirigere le nostre idee intrecciando i linguaggi. Questa interazione di massa con le nuove tecnologie dà la possibilità all’uomo di accedere a una “nuova” conoscenza che l’artista è in grado interpretare.  McLuhan teorizza gli effetti della comunicazione e i comportamenti che ne derivano a livello individuale e sociale.  Wharol utilizza un linguaggio “virale” riuscendo a riprodurre e sublimare un’immagine della quotidianità fino a renderla icona. Per tale ragione ritengo che il cambiamento della società possa avvenire partendo da un linguaggio comune che nel tempo l’artista plasma ed astrae con gli strumenti affini alla sua ricerca. In questo processo di comunicazione l’effetto si sedimenta e germoglia in altro.

 

Quali sono i tuoi programmi per il futuro?

Sto preparando delle opere per la prossima personale. Presenterò infatti un progetto per una galleria dove i linguaggi della mia ricerca artistica: la pittura, la scultura e la fotografia interagiscono per la prima volta insieme in un’unica narrazione stilistica.  Questo si inserisce in un proposito più grande che è quello di presentare i miei lavori all’estero confrontandomi con altre realtà culturali come musei e esposizioni pubbliche. Il mio desiderio è poter trasmettere la mia opera in diversi contesti comunicativi.

 

In quale modo le istituzioni potrebbero agevolare il lavoro di artisti e curatori?

Quando leggo la parola curatore lo abbino sempre alle figure dei grandi nomi che hanno creato il cambiamento nel concetto di arte; essi hanno trovato in alcuni artisti il motore rivoluzionario che ne ha permesso la spinta propulsiva. Cito alcuni: Peggy Guggenheim, Larry Gagosian, Lea Vergine, Achille Bonitoliva e artisti quali Jackson Pollock, Anselm Kiefer, Marina Abramović, Mimmo Paladino. Se analizziamo storicamente la fatica nell’affermare il proprio pensiero, di artista o curatore, non penso sia difficile dare spazio all’emancipazione culturale da parte delle istituzioni. La difficoltà è riuscire a far comprendere attraverso la divulgazione le molteplici e particolari esigenze dell’espressione artistica. Penso che le istituzioni dovrebbero investire sulle nuove generazioni, cercando di sensibilizzare e formare a partire dalla scuola. In questo mondo vorticoso e divoratore bisognerebbe fermarsi a riflettere sui contenuti in modo tale che si crei un rinnovato codice dell’estetica e della cultura. Come ci insegna Banksy il museo diventa lo spazio comune e quotidiano foriero di una rivoluzione espositiva densa di significato.  Concludo la mia riflessione con una affermazione di Stephen Hawking “Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza”.

 

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