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Sul suo profilo Instagram si definisce alchimista, attivista della moda ed eco-femminista. Maroussia Rebecq è una figura radicale che, con determinazione e un entusiasmo contagioso, si è posta un obiettivo ambizioso e lungimirante: “riscrivere” le regole della moda, della sua produzione e del suo consumo. E lo fa partendo dall’upcycling, grazie all’azienda francese Veepee, all’incontro col suo visionario presidente e fondatore Jacques-Antoine Granjon e al progetto Upcycle Solution di cui è direttrice artistica.
Alla fine del 2020 Veepee ha lanciato Re-cycle, un’iniziativa di second hand che raccoglie i capi dai guardaroba dei clienti del sito per rivenderli una volta selezionati, lavati e fotografati. Parliamo di un’azienda da 3.2 miliardi di euro, presente in 10 paesi, che impiega 5.500 collaboratori e coinvolge ogni giorno 66 milioni di soci iscritti, collaborando con 7 mila brand. Con il nuovo progetto, Veepee si è spinta oltre, non solo valorizzando i prodotti dimenticati negli armadi — o per i più fortunati nelle cabine armadio — dei loro clienti, ma anche gli stock dei brand partner della società.
La missione di Maroussia Rebecq è ridare vita a questi prodotti “fuori uso” per creare pezzi unici, siano essi abiti, mobili, installazioni o sculture. Abbiamo visitato l’atelier dove lavora a Saint Denis alle porte di Parigi — a metà tra una sartoria, un ufficio stile, un centro di raccolta e la Factory creativa di warholiana memoria — con montagne di jeans a terra, come le celebri piramidi di abiti di Christian Boltanski. In occasione della sua prima capsule collection, presentata alla fiera Paris Internationale, allestita nell’edificio a due passi da Opéra — che è stato studio di Nadar e sede della prima mostra degli impressionisti — ci siamo fatti raccontare la sua storia e la sua visione dell’arte e della moda.
Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Bordeaux, cosa avrebbe voluto fare da grande?
Volevo fare l’artista, essere libera, attiva nel mondo, assumere una posizione nei confronti del consumo. Mentre studiavo arte, piuttosto che fare uno stage in un’azienda, ne ho creata una. Ed è negli abiti che ho trovato il mio miglior mezzo espressivo.
Tra i suoi insegnanti all’Accademia c’era Anita Molinero con cui ha di recente realizzato una scultura/cestino della spazzatura. Quale è stata e qual è ancora oggi la sua influenza?
Anita Molinero mi ha accompagnata e influenzata durante i miei studi d’arte. Ad ispirarmi è stata la sua radicalità. In quanto artista femminista, mi metto in scena, parlo di me, del corpo delle donne. Lei ha un’altra visione femminista, non fa nulla di tutto ciò. Lei dà fuoco ai bidoni della spazzatura. Il suo è un gesto radicale! Siamo entrambe specialiste della “spazzatura”. Lei brucia i bidoni, per fare arte astratta, io setaccio lo scarto per “tirar fuori” un abito.
Ho letto che nella sua formazione artistica all’attivismo ha contribuito l’artista svizzero Thomas Hirschhorn. In che modo?
L’Accademia in cui ho studiato faceva molto lavorare gli studenti con gli artisti invitati. La direttrice Guadalupe Echevarria era geniale e faceva venire molti artisti “impegnati”. A quel tempo Thomas stava lavorando a un progetto dal titolo Lascaux III e c’era un gruppo di studenti che lavorava per lui. Io ero la più simpatica, la migliore e la più “attivista” (lo dice con ironica, ndr) … Da lì è nata un’amicizia e tutte le volte che Thomas tornava a Bordeaux ci vedevamo. La sua influenza è stata nel modo di far lavorare le persone come se si trovassero nel suo studio ed è simile al lavoro che svolgo nel mio atelier. Ricordo che mi ha dato dei soldi e mi ha detto di andare a comprare delle riviste di moda. Le ho prese e poi ci ha chiesto di ritagliare tutte le teste delle ragazze molto velocemente e senza alcuna decorazione. Ognuno poi le ha riattaccate a suo modo. C’era una regola del gioco ma dentro quella regola eravamo molto liberi. Ed è questo che dà forza all’opera perché integra l’energia di tutte le persone che vi lavorano. Questo ha molto stimolato il mio modo di lavorare da Veepee perché fornisco una “struttura” ma lascio poi le persone molto libere di utilizzarla a modo loro. Thomas Hirschhorn è stato il mio maître à penser. Diceva: energia sì, qualità no. Naturalmente facciamo prodotti di qualità ma nella t-shirt che indosso ora, ad esempio, ciò che emerge non è tanto la qualità ma l’energia dello sconvolgimento del mondo.
Ha cominciato a fare upcycling più di vent’anni fa. In quale occasione e perché?
Ho fatto la mia prima sfilata di moda quando ero studentessa all’Accademia di Belle Arti. Ho voluto prendere dei capi di seconda mano da persone per strada in un quartiere popolare per mostrare un’altra versione della bellezza, del consumo e un modo nuovo di affrontare il mondo. Nel 2002 Jérôme Sans mi ha invitata al Palais de Tokyo. Avevo ancora voglia di lavorare con gli abiti e collaborare con un’associazione umanitaria. Quindi mi sono detta che dovevo evolvere la mia pratica. Piuttosto che fare styling con abiti di scarto ho voluto mostrare come potevo trasformarli. L’idea è stata quella di chiedere al Palais de Tokyo di raccogliere tonnellate di abiti che le persone donano alle associazioni umanitarie, installare una sartoria e ho fatto intervenire sia dei creatori di moda molto conosciuti come Karl Lagerfeld sia degli sfollati totalmente sconosciuti della mensa dei poveri come Joseph Camonga. Volevo dimostrare che insieme potevamo ripensare la produzione degli abiti e della moda.
Nel 2002 ha fondato il collettivo sperimentale Andrea Crews. Mi racconta l’origine del nome?
L’idea era quella di trovare un nome a un personaggio fittizio in cui tutti potessero riconoscersi. Andrea, ho pensato, è sia un uomo o una donna in Italia che un nome tedesco e crew vuol dire team. Non sei sicuro se si scriva come Penelope o Tom (fa riferimento al cognome di Penélope Cruz e Tom Cruise, ndr) … che si tratti di un portoricano, di un americano, di un uomo o di una donna. Un personaggio fittizio mascherato e col pugno alzato. Quindi, chiunque porti una maschera può diventare Andrea Crews. Il pugno alzato sta ad indicare che si sta cercando di costruire un mondo migliore.
Artista, stilista, performer, che ordine darebbe a queste tre parole per descriversi al meglio?
Direi artista, stilista e performer. Proprio così.
Sul suo profilo Instagram si definisce alchimista, attivista della moda ed eco-femminista. Anche qui tre parole.
Mi piace il termine alchimista perché è più metafisico e parla della mia pratica artistica. Attivista della moda è più classico, eco-femminista più contemporaneo.
Ora è alla direzione artistica di Upcycle Solution di Veepee. Quali sono gli obiettivi e quali le sfide?
La sfida per me è rendere l’upcycle accessibile a un numero sempre maggiore di persone. Perché l’upcycling è una pratica radicale della trasformazione che molti artisti o giovani creatori possono abbracciare. Mi sono associata a Veepee che è in qualche modo l’opposto di me. Io sono “piccola”, radicale, artigianale, Veepee è enorme, mainstream, tecnologica. È importante che i due mondi si incontrino per proporre una soluzione (da qui il nome Upcycle Solution, ndr). E la soluzione sarebbe rendere l’upcycling più entusiasmante per tutti e raggiungere il più alto numero di persone.
Upcycle Solution ha un profilo Tik Tok. Qual è il messaggio che vuole trasmettere?
Su Tik Tok racconto principalmente la vita dell’atelier, la gioia di lavorare insieme e della creazione. Lavoro a un progetto ecologico molto ispirazionale. Il messaggio è la gioia e il potere della creazione.
Come è composto il suo team?
Un Head of Design, molti studenti di moda, un team di produzione più tecnico e un team di comunicazione per Tik Tok.
Crede che l’Upcycle influenzerà la moda e la sua produzione?
Sì, lo credo. Lo spero!