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JAPAN. BODY_PERFORM_ LIVE al PAC di Milano
Mostre
Dopo Cina, Cuba, Africa, Brasile e Australia, il PAC prosegue la sua esplorazione dei continenti attraverso la scena contemporanea proponendo con “JAPAN. BODY_PERFORM_LIVE, Resistenza e resilienza nell’arte contemporanea giapponese”, fino al 12 febbraio 2023, diverse forme d’espressione d’arte contemporanea provenienti dal Giappone dopo il 2000, concentrandosi in particolare sulle tendenze che coinvolgono i corpi degli artisti, tra azioni e dinamiche performative.
Con un focus sulle forme espressive che vedono il coinvolgimento diretto del corpo dell’artista, la mostra – promossa dal Comune di Milano – Cultura, prodotta dal PAC insieme a Silvana Editoriale e curata da Shihoko Iida e Diego Sileo, incontra la pittura, il disegno, la scultura, la fotografia, il video e i tessuti contestualizza il fermento artistico del Giappone attraverso le pratiche e le espressioni corporee degli artisti.
Makoto Aida, Dumb Type, Finger Pointing Worker/Kota Takeuchi, Mari Katayama, Meiro Koizumi, Yuko Mohri, Saburo Muraoka, Yoko Ono, Lieko Shiga, Chiharu Shiota, Kazuo Shiraga, Kishio Suga, Yui Usui, Atsuko Tanaka, Fuyuki Yamakawa, Ami Yamasaki e Chikako Yamashiro sono i portavoce – nati tra il 1924 e il 1987 – dell’urgenza inerente la politica dell’identità immaginata dagli artisti giapponesi contemporanei, e di come lo spirito politico sociale di un’epoca sia stato rivelato attraverso le pratiche artistiche.
Mettendo in discussione il corpo, le relazioni, il genere e l’identità, la mostra è articolata in cinque capitoli: “Prospettive storiche”, “Vita e morte, cicli e dinamiche dell’anima”, “Generare ecosistemi e relazioni”, “La politica dell’identità e il corpo che resiste” e “Corpi coreografati e rappresentati, politica e genere”.
Il capitolo introduttivo, “Prospettive storiche”, presenta i dipinti realizzati con la tecnica del foot-painting di Kazuo Shiraga, che utilizzava i piedi per tracciare segni, scivolando e trascinando il colore su grandi tele stese sul pavimento e le tele di Atsuko Tanaka, artista di punta del dopoguerra giapponese, celebre per l’opera “Electric Dress” (1956): un abito composto di cento luci al neon e novanta lampadine ricoperte con una vernice in nove colorazioni, che veniva portato in scena indossato, rendendo protagonista il corpo. I tre dipinti in mostra riprendono su superfici piane gli elementi chiave di “Electric Dress”: la forma delle lampadine, i fili elettrici che le collegano, la luce e il movimento del corpo. Nella sezione anche il video documentario della performance in cui Yoko Ono, completamente abbandonata alla mercé del pubblico, resta immobile e impassibile mentre lo spettatore, su invito, taglia i vestiti che indossa. Il controllo dell’azione è nelle mani degli astanti che, a turno, impugnano le forbici e, letteralmente, tagliano un pezzo, tagliano il confine tra sé e l’atro, invadendo completamente lo spazio personale dell’artista. Queste espressioni d’avanguardia del dopoguerra, in cui il corpo dell’artista veniva utilizzato come strumento di interazione con molteplici ambiti, ha avuto una forte risonanza nei confronti dell’espressione fisica e dell’arte visiva degli artisti contemporanei. Saburo Muraoka, contemporaneo del gruppo Gutai, e Chiharu Shiota, insieme con Fuyuki Yamakawa, esplorano – in tema di “Vita e morte, cicli e dinamiche dell’anima” – la trasmissione di vita: Muraoka attraverso la scultura che realizza utilizzando le tecnologie, le vibrazioni, il calore, l’energia cinetica, per lavorare materiali come il ferro, il sale, lo zolfo, l’ossigeno, Shiota con un’installazione piena di sensibilità femminile che fa percepire il valore universale dell’esperienza della vita e della morte attraverso l’uso di una massa di filo nero e di un abito bianco, oggetto simbolico che evoca la presenza umana seppur assente e Yamakawa usando il suo corpo come strumento e il canto khoomei per esprimere l’esuberanza della vita.
Ampio spazio alle installazioni site-specific di Kishio Suga, uno degli artisti “Mono-ha”, e Yuko Mohri nel capitolo “Generare ecosistemi e relazioni”. Entrambi, conoscitori del rapporto fra materiali e forze naturali come gravità, magnetismo, luce e vento, rispondono all’ambiente e allo spazio creando opere che somigliano a nuovi – e forse possibili – ecosistemi. Mohri in “Moré Moré (Leaky)” riutilizza oggetti come ombrelli, teli di plastica, bidoni e secchi, tubi, guanti di gomma, spugne e palette creando percorsi creativi, efficaci eleganti e leggeri che mettono in relazione l’uomo e la sua volontà con il fluire naturale incontrollato dell’ambiente. Suga invece usa una corda nera, tesa tra le pareti, riflettendo e facendo riflettere sui limiti dello spazio e quindi anche sulla relazione tra spazio, luogo, oggetti e persone presenti. Nell’ampio spettro delle relazioni, offrono uno sguardo su “La politica dell’identità e il corpo che resiste” il collettivo Dumb Type – loro è l’installazione “LOVE/SEX/DEATH/MONEY/LIFE” in cui le parole chiave scorrono in bianco e nero su una parete a led toccando temi caldi per il Giappone come la sessualità e l’HIV, che ha segnato la vita del fondatore Furuhashi – e le artiste Lieko Shiga e Chikako Yamashiro. Shiga usa la fotografia per indagare le fragilità umane, il rapporto tra uomo e natura, tra vita e morte, Yamashiro con il video (“Mud man”) esprime il sentimento di un popolo ancorato alla natura, ai riti e alle tradizioni tramandate da generazioni utilizzando il linguaggio arcaico dei dialetti locali, suono universale dell’espressione umana.
E infine (i) “Corpi coreografati e rappresentati, politica e genere”. Apre la sezione l’installazione di Ami Yamasaki “here (qui), you (tu), hear (senti)”, cui seguono le opere di Finger Pointing Worker/Kota Takeuchi, che riflette su eventi attuali di grande portata che hanno coinvolto il Giappone, sull’uso della tecnologia in modo distruttivo e su come la distribuzione incontrollata e anonima di immagini sul web possa essere usata attivamente; i video di Makoto Aida; la videoinstallazione a cinque canali di Meiro Koizumi che ammonisce a pensare al rapporto tra massa e singolo, tra Stato e cittadino, sul potere e sul controllo esercitati dalla società su ciascuno di noi; le opere tessili di Yui Usui che svelano un mondo di lavori domestici femminili non riconosciuti e spesso non retribuiti su cui la società fonda gran parte del proprio benessere accettando una condizione di disuguaglianza di genere e infine gli autoritratti di Mari Katayama, inquietanti perché mostrano il corpo “imperfetto” in tutta la sua fragilità, un corpo che di solito si evita di guardare, insieme con le recenti fotografie di paesaggi della sua città natale.
I diciassette artisti in mostra, mediando sapientemente la propria esperienza con la scelta del medium prescelto, usano il proprio corpo vincolando tematiche che, prese in esame, permettono di stabilire la specificità del lavoro performativo, ciascuno dei quali coinvolge un complesso di questioni inerenti la vita, la natura dell’arte, e la loro interazione. Tutti insieme si fanno strumento di approccio alla realtà, connotandosi come dono, scambio simbolico che apre all’intersoggettività e stabilisce tra artista e fruitore un nesso relazionale, comprensivo di una risposta emotiva che si fa atto linguistico, ossia linguaggio e comportamento.