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Tra i Main project di ART CITY Bologna, in occasione di Arte Fiera, nella sala Convegni di Banca di Bologna presso Palazzo De’ Toschi è aperta al pubblico “Finding Form”, mostra che restituisce il percorso di Bettina Buck a partire dalla sua ricerca sulla scultura come tensione verso una forma che è sempre parte di un processo in divenire.
Gommapiuma, piastrelle, schiuma di lattice, polistirolo, moquette, plastica. Ecco una lista, parziale, dei materiali industriali comunemente impiegati negli spazi privati, che circolano nell’opera Bettina Buch. Fortemente significativi, o comunque significanti, è attraverso questi che Buck costruisce uno sguardo pertinente verso il mondo, come fiuto del senso in ogni anfratto in cui si possa celare.
Gli uomini usano una molteplicità di cose del mondo per significare se stessi, la società, il cosmo. Nelle opere in mostra di Buck questi materiali assumono un preciso scopo sociale e antropologico: il corpo è centrale, è l’unità di misura della scultura, e ne è anche metafora in quanto la scultura, come il corpo, cerca la propria forma nel tempo, la cambia, prende spazio ed è spazio. Sono mezzi di significazione, dunque, segni sparsi, veri e propri linguaggi.
Ci muoviamo in “Finding Form” attraversando, simultaneamente, alcuni temi specifici. La gravità, intesa come forza a cui la forma si assoggetta e cede, talvolta fino al suo azzeramento. L’occultamento, allusione a una vita segreta della scultura, a una sua forma immaginata e narrabile più che percepita con i sensi. E, non da ultimo, quell’idea di domestico che identifica la scultura come qualcosa che prende forma nei nostri immediati dintorni alterando, accostando, piegando cose che senza l’intervento dell’artista resterebbero, appunto, cose.
Lo sguardo passa attraverso queste cose.
Centrale, nella mostra, è il video “Interlude”, che documenta una camminata solitaria dell’artista mentre trascina una forma di gommapiuma. Che cosa può diventare, la gommapiuma? Una scultura potenziale. Un semplice ingombro o fardello. Una seduta. Un punto d’osservazione. Questa forma è scultura e oggetto di scena insieme. Il video “Another Interlude” ce la mostra nelle sale della Galleria Nazionale di Roma, cambiando di volta in volta di senso.
Attorno a questo nucleo visivo, in cui è evidente la trasformazione del corpo in figura, la scultura “3 Upright” si compone di tre elementi, auto-portanti, destinati nel tempo a mutare forma per effetto della gravità. David Hume diceva di aver sempre visto «che un corpo umano possiede una qualità ch’io chiamo gravità, e che gl’impedisce di volare»: ebbene queste sculture cambieranno e, proprio per effetto della gravità, arriveranno a crollare. I tre elementi, che pur alludono a una strutturalità che è metafora di forza e stabilità, sono in realtà gusci estremamente fragili. Il crollo è inscritto nella loro stessa sostanza: la tensione tra la ceramica e il lattice è destinata a provocare uno spostamento che, in continua evoluzione, annienta l’opera, svelandone la sua natura di superficie. Non è, del resto, forse impossibile, chiedere a una scultura di stare ferma?
Lungo il percorso capiterà, frequentemente, di guardare all’opera dovendo scegliere tra due punti di vista, reciprocamente escludenti. “Medusa Block”, per esempio: consideriamo il pilastro di gommapiuma come scultura, oppure lo identifichiamo come l’involucro che ci impedisce di vedere la scultura in bronzo che esso contiene e che possiamo solo immaginare? Implicando una nostra azione, tutte le opere sono anche impiegate in un’azione. Come “Pressed Foam” dove il peso della pietra agisce appena percettibilmente sulla gommapiuma. O come “Oracle lips” dove il principio di una cosa di pesare su un’alta cosa contribuisce alla definizione di una nuova immagine, ironica – perché no.
È innegabile che la forma che il tempo imprime nel corpo di queste opere comporti una modifica da quella originaria. Ma non è da intendersi affatto come perdita di significazione, semmai una modifica della natura intrinseca di tale significazione. C’è, del resto, sempre un senso che va oltre l’uso dell’oggetto. “Finding Form” fa di questo senso lo spunto per un dialogo tra gli oggetti, la loro materialità e il loro rapporto con il corpo per riflettere, attraverso un vocabolario scultoreo, sul nostro tempo e le nostre ossessioni.