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Sulla superficie del volto: apre la mostra di JR alle Gallerie d’Italia di Torino
Mostre
Si è inaugurata Déplacé-e-s, la prima personale italiana di JR, presso la prestigiosa sede delle Gallerie d’Italia in piazza San Carlo, a Torino. La mostra, realizzata in collaborazione con la Fondazione Compagnia di San Paolo e affidata alla curatela di Arturo Galansino, occupa un’ampia sezione dello spazio espositivo del museo e resterà aperta al pubblico fino al 16 luglio 2023 (mentre è stato recentemente presentato all’Arengario di Milano il progetto Inside Out). La mostra è stata anticipata da una performance che, nella consuetudine tipica dell’operato di JR, ha coinvolto la popolazione e si è svolta il giorno precedente l’inaugurazione della mostra nella stessa piazza San Carlo e nelle zone a essa limitrofe.
L’artista francese, classe 1983, è noto per i suoi interventi sul territorio volti a coinvolgere direttamente la collettività, ricorrendo a un linguaggio di facile lettura e di sicuro impatto, che si gioca sulla monumentalità delle forme e su una comunicazione immediata ed efficace. Nei mesi passati, l’artista aveva realizzato una serie di performance con interventi in zone di guerra, dall’Ucraina al Ruanda, in Colombia, Mauritania e Lesbo, in Grecia. In tutti questi territori feriti da conflitti e flussi migratori, l’artista ha realizzato gigantesche figure di bambini incontrati tra i profughi e i rifugiati a causa della guerra, sorridenti come solo i più piccoli possono, nonostante tutto il dolore e la devastazione. Le figure hanno ogni volta le dimensioni di enormi teli ed è possibile vederle nella loro interezza e completezza soltanto dall’alto, attraverso l’utilizzo di droni, oppure per chi si trova in una situazione favorevole. Per essere tesi e rendere le figure visibili, i teli devono poi essere sorretti dalle mani di decine e decine di persone che accettino di collaborare insieme a un unico progetto comune.
In seguito, a Torino, in occasione della performance, JR ha fatto incontrare tutte le opere raffiguranti bambini profughi o rifugiati di guerra, facendole stringere in un enorme, simbolico abbraccio. Al termine dell’evento pubblico, le opere sono poi state portate all’interno del museo, dove ora sono esposte, naturalmente tese solo in parte, insieme presenza e memoria delle performance realizzate. Il lavoro di JR si conferma, così, per la sua caratteristica capacità di mettere insieme una qualità estetica immediata, molto condivisibile e a tutti comprensibile, con l’attivazione del tessuto sociale dei luoghi dove svolge i suoi interventi, incoraggiando la partecipazione e l’esperienza diretta di un pubblico che non necessariamente si identifica con quello dei tradizionali art-lovers, o almeno non totalmente. Alla domanda, che parafrasa a quella di Dimitrij Karamazov, se la bellezza, e l’arte, possano cambiare il mondo, JR risponde in maniera ottimistica, con i suoi interventi scenografici capaci di toccare il cuore di moltissime persone.
Certo, gli interventi sono effimeri, transitori, non lasciano traccia. Le figure sono sempre di grandissime dimensioni, appaiono spalmate su superfici mobili, gigantesche. Ma forse è proprio questa traduzione dell’immagine in superficie, questo renderla superficiale nel senso letterale e fisico del termine che costituisce la cifra con cui leggere queste opere dal punto di vista della loro qualità e intensità artistica. Si pensi all’intervento di qualche anno fa a Firenze, dove l’artista aveva simulato uno squarcio sulla facciata di Palazzo Strozzi, immaginando di poter trasportare fuori l’interno del palazzo, con le sue meraviglie artistiche esposte letteralmente sulla sua superficie esterna e a tutti visibile.
A Torino, in qualche modo, si attua l’operazione inversa. Le figure gigantesche sono piegate e riportate all’interno, nello spazio che un tempo fu il caveau della banca. Eppure, la cifra della superficie resta anche qui percepibile chiave di lettura dell’intero lavoro, insieme a quella del gigantesco e del coinvolgimento della collettività.
È però soprattutto quest’ultimo punto quello che più lascia il segno, se non nel senso della presenza di un’opera, in quello della memoria e dell’esperienza, appunto, condivisa, per di più in luoghi dove la guerra minaccia la vita delle persone o rappresentando soggetti che subiscono la guerra in prima persona. Più che chiederci se l’arte possa cambiare il mondo, o la bellezza, allora forse la domanda da porsi è invece un’altra: quante persone servono per sorreggere, e tenere in vita, il sorriso di un bambino?