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L’incontro. Simbolo di pace, Gianfranco Meggiato a Piazza Cavour a Roma
Progetti e iniziative
Dal 24 febbraio 2023 piazza Cavour a Roma ospita l’installazione di Gianfranco Meggiato, “L’incontro. Simbolo di Pace”, realizzata dallo scultore veneziano e promossa da BAM di Giulia Abate e Maria Isabella Barone al loro secondo progetto di arte pubblica dopo “The Lobster Empire” di Philip Colbert, ospitato a via Veneto. Parallelamente, si è inaugurata presso i locali della Galleria Mucciaccia l’esposizione di una selezione di opere di Meggiato, che abbiamo intervistato.
L’installazione da poco inaugurata vuole essere una riflessione sulle atrocità della guerra. Come pensa che l’Arte possa lanciare un messaggio di pace?
«In questo momento si parla quasi esclusivamente di guerra, quasi nessuno parla di pace. Ebbene io penso che l’artista, figlio del suo tempo, abbia la responsabilità morale di cercare di diffondere un messaggio alternativo, un messaggio di pace e speranza.
In una delle quaranta frasi, citazione dei grandi della storia, impresse sui sacchi di juta dell’installazione di Roma si legge: “Credo nel sole anche quando piove” (Anna Frank). Ebbene, io voglio credere che dopo un momento di generale follia si torni a parlare di pace, di rispetto tra culture diverse, di valori condivisi.
Il pianeta con le sue fragilità e i suoi limiti è troppo piccolo per essere scenario di lotte imperialistiche senza fine e di predazioni illimitate. Dobbiamo assumere la consapevolezza che siamo tutti onde dello stesso mare, cellule dello stesso organismo e che il rispetto tra diversi è la base di tutti i rapporti, da quelli interpersonali fino a quelli tra superpotenze».
Quale aspetto della guerra in Ucraina l’ha più colpita? A quale si è ispirato per realizzare la sua installazione?
«Il porre dietro alle fortificazioni non dei soldati, ma una scultura della serie “Le Muse Silenti” titolata “l’Incontro” simbolicamente significa proprio questo: dopo aver ispirato la poesia e l’arte la Musa la difende, ultimo baluardo contro la barbarie e la morte. Attualmente il fronte ucraino è carneficina, barbarie, morte e l’arte non può far finta di non vedere. Oltre alla guerra in Ucraina, non dimentichiamoci di un’altra cinquantina di conflitti in corso nel mondo».
Roma e l’arte contemporanea. Come si confronta la sua opera con gli spazi urbani, con l’attualità?
«Io credo nella possibilità dell’arte di porre domande, di indurre alla riflessione, è per questo che mi piace portare l’arte fuori dai musei, nelle piazze, tra la gente, tra quelle stesse persone che nei musei non andrebbero mai, ma che si imbattono in un’installazione posta in piazza. Questo è secondo me il vero significato di arte popolare».
Possiamo parlare di un’opera ambientale, cosa porta un artista a scegliere questo tipo di installazione?
«Certamente, però è importante sempre contestualizzare l’installazione che si va a posizionare; in questo caso porre l’installazione: “L’Incontro. Simbolo di Pace” proprio davanti al grande Palazzo di Giustizia di Roma ha un preciso significato, come diceva papa Giovanni Paolo II: “Non c’è pace senza giustizia, ma non c’è giustizia senza perdono”».
Parliamo dell’opera. Una scultura realizzata con materiali molto differenti per la loro natura, con sacchi di juta e alluminio. Qual è stata la riflessione che la ha portata alla scelta di questi materiali?
«La juta dei sacchi è un materiale organico destinato a un rapido degrado che, metaforicamente, rappresenta la condizione dell’essere umano destinato inevitabilmente alla caducità. È proprio in questo contesto, di fronte alla presa di coscienza dell’ineluttabile fragilità e fugacità della vita umana, che i conflitti tra uomo e uomo dovrebbero perdere di ogni significato».
Quali sono i significati metaforici che questa tecnica vuole evocare nello spettatore?
«La grande scultura verticale bianca in alluminio, posta al centro dell’installazione, alta 4 metri, con la sua spinta verso l’alto, vuole simbolicamente essere stimolo di elevazione per le coscienze. Questa bianca fluida scultura dal titolo “L’incontro”, simbolo di unione tra culture differenti, vuole portarci oltre, verso la speranza di un’acquisizione di quella consapevolezza che, nell’opera, fa partire tutto da un unico punto per farci ritrovare dopo mille percorsi intricati, vicini e uguali. In questo particolare momento storico pieno di contrasti e tensioni, proporre il tema dell’incontro e del dialogo tra diversi penso sia di fondamentale importanza».
Un’opera che nasce dalle suggestioni lasciate dai grandi maestri del primo Novecento. Quale pensa siano gli insegnamenti che gli scultori del passato le hanno trasmesso?
«Nelle mie opere c’è sempre un equilibrio formale unito a un impulso vitale che le rende vive e pulsanti, cosicché il dialogo tra staticità e movimento dà vita alla scultura. Sicuramente in questo, la mia scultura, pur nella sua astrazione e contemporaneità, è figlia della tradizione della grande scultura italiana. Inoltre, è molto importante una costante ricerca di libertà espressiva, l’operare al di fuori di schemi precostituiti. Questa voglia di libertà si esplica anche nel modo in cui realizzo le mie opere non partendo mai da un disegno, da un progetto o un bozzetto, ma creando via via la scultura, modellando di getto la cera calda. Per me, essere artista del mio tempo significa a livello creativo cercare di avere un atteggiamento mentale libero da sovrastrutture.
Tra i grandi scultori del passato amo molto Donatello e Michelangelo. Il primo per la sua “imprevedibilità”, la vitalità dei suoi modellati, la sua ricerca di soluzioni plastiche “non convenzionali”; il secondo per i suoi “non-finito” nella continua dialettica tra materia e spirito. Tra i grandi scultori del Novecento mi piace Brancusi per la sua ricerca dell’essenzialità, Moore per il rapporto interno-esterno delle sue maternità e Calder per l’apertura allo spazio delle sue opere».
Il modello della scultura oggi collocata in piazza Cavour verrà esposto presso la Galleria Mucciaccia, insieme a una serie di altre sue opere. Come potrebbe definire il rapporto tra gallerista e artista nella nostra contemporaneità?
«Oggi i veri galleristi sono rimasti pochi, perlopiù le gallerie sono diventate negozi in cui comprare oggetti alla moda. Ecco, Massimiliano Mucciaccia fa ancora parte di quella tradizione di galleristi che si interfacciava con l’artista cercando di promuoverne il messaggio artistico, oltre che la vendita».
Quale è il filo conduttore della selezione delle opere per la mostra “Muse Silenti”?
«La mostra negli spazi museali della galleria Mucciaccia di Roma con 10 mie opere vuole essere una piccola antologica della mia carriera artistica, un omaggio a Roma, culla di cultura e civiltà».