09 settembre 2004

Schermo delle nostre brame. Come la pubblicità televisiva ci ha cambiato la vita

 
di nicola davide angerame

Da Calimero a… Naomi Campbell. Dal monumentale Carosello all’uomo che non deve chiedere mai. Sogni bisogni e brame inconfessabili nell’epoca della pubblicità televisiva. Che modella e sistematicamente pervade. E che finisce pure al museo. Piccolo viaggio al di là dello schermo. Dove nascono i sogni. Rigorosamente formato spot…

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La musealizzazione e la storicizzazione della pubblicità è stata decisa. Il neonato Museo della Pubblicità al Castello di Rivoli –forte dei 60.000 visitatori avuti nei primi tre mesi della mostra inaugurale- offre una seconda mostra, che spiega come la pubblicità televisiva ha segnato nei decenni scorsi il nostro immaginario, costruendo un portentoso paesaggio del desiderio. Qualcosa che l’arte non è riuscita a fare in secoli di fatiche e che cinquant’anni di messaggi superficiali, semplici e di un infantilismo regressivo hanno plasmato, ottenendo un successo onnipervasivo ed economicamente schiacciante. Al punto che oggi si costruiscono programmi e contenuti in funzione dell’osannata e vitale raccolta pubblicitaria.
Schermo delle mie brame, a cura di Ugo Volli -ora al Castello di Rivoli- rilegge la storia degli ultimi cinquant’anni attraverso la lente dei consumi di massa e della pubblicità, che ne è stata la propaganda e lo strumento ideologico, capace di vincere sulle utopiche mistificazioni politiche parlandoci in privato, sottovoce e con modi suadenti; contro i traumatizzanti e megafonici vaneggiamenti dei vari totalitarismi, incapaci delle arguzie commerciali sintetizzate dal sistema produttivo di massa.
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Sorta nel 1954 con intenti pedagogici, ecumenici e politici, e finita nel 2004 nelle mani dell’economia, mamma RAI compie i suoi primi 50 anni aprendo gli archivi. Ne vengono fuori il monumentale Carosello, le lunghe storie umoristiche che impegnarono attori di rango, come Vittorio Gassman, Aldo Fabrizi o Dario Fo, e registi straordinari come Federico Fellini, e gli spot all’americana, sintetici e pregnanti, adatti a conficcarsi nel parlar comune, zona strategica del nostro comprendere e spiegare il mondo, del nostro percepirlo ed elaborarne il senso. La pubblicità opera “magicamente” su queste elaborazioni colpendo la parte infantile dell’ego, quella dove un tempo si costruivano i miti, le leggende ed i riti.
L’allestimento eccellente di Marco Della Torre trasforma la Manica Lunga in una galleria del tempo a ritroso, ordinando 50 televisori, 450 spot, documenti audiovisivi, slogan ricostruiti a parete e oggetti di consumo famosi sotto campane di vetro. Si parte dalla globalizzazione, compresa tra la caduta delle Twin Towers a quella del muro di Berlino, e si giunge all’Epilogo il lontano biennio 1954-6 in cui la pubblicità è scomunicata, dalla la dirigenza dell’epoca che “la considera futile e antieducativa, intollerabile dentro un mezzo che deve avere soprattutto valori spirituali e pedagogici” (Ugo Volli).
Il successo del made in Italy, gli anni di piombo, la rivolta giovanile, la nuova vita cittadina e il miracolo italiano sono i capitoli di una storia dai toni mitici, la cui preistoria è quel tempo in cui le immagini non pervadevano ogni angolo del nostro vivere associato, prima che si insediasse l’agorà della nuova “democrazia-al-tempo-della-sua-riproducibilità-tecnica”, un luogo dove parla “uno” (impersonale) solo e nessuna risposta è possibile, tranne quella dell’acquisto, e raramente del voto. Una preistoria, dunque, che data a cinque decenni fa, prima dell’avvento, salvifico secondo i più, del novello mezzo d’invasione culturale e di omologazione, prima che la tv colonizzasse miliardi di case, inoculando loro un mondo a frammenti, un vociare disordinato, isterico ed ipnotico, dove tutto appare sul medesimo piano, genocidi e pannolini, e dove l’unica dinamica è il ritmo incessante, anzi sempre più accelerato, della stimolazione di desideri. Desideri che vanno sotto la massima di quel brillante decadente che è stato Oscar Wilde: “toglietemi tutto ma non il superfluo” (ma era pubblicità?).
Comunque, per quanto dura possa essere una requisitoria sulla tv e sulla pubblicità, non si può fare a meno di condividere la grande intuizione-emozione che ebbe Andy Warhol entrando in un supermercato: era quello il luogo dei sogni, il paradiso in terra, il centro asciutto, impersonale e minimo del nirvana occidentale. Sì era quello il nostro “benessere”, confuso con l’“avere”, l’accumulo ossessivo e opulento di oggetti, fronzoli e patacche. Come i bianchi mercanti d’Africa di un tempo, la pubblicità ci regalava uno specchietto, un frammento di vetro in cui guardarci, incantesimo percettivo in cambio della nostra anima e della nostra cultura.
Un patto faustiano col diavolo avvenne allora, in quel primo girar di manopola, nell’avventata sintonizzazione con l’al di là dello schermo, zone franche ricostruite in studio per ammaliare noi primitivi. Addio prossimità, benvenuto sapere globale. Da allora il nostro vicino, e tutto il nostro mondo prossimo ci parve soltanto una scialba alternativa, sempre meno credibile, di un Mondo Pieno di Cose: eventi monumentali, gesta gloriose, gioie inarrivabili, dolori insopportabili, emozioni inenarrabili, amori ineguagliabili. Tutti abbinati a merci, come dadi, birre o automobili.
Oggi, noi primitivi zappiamo furiosamente (e non la terra!) sul nuovo scettro casalingo, democraticamente diffuso, per (farci) “ripetere la differenza” e riprodurre ab aeterno lo scopo unico della tv odierna: “fare-odiens-per-vendere-pubblicità”. Tale monolitico fine non può produrre vere divergenze e alternative, ma soltanto un tempo chiuso e circolare della ripetizione del (apparentemente) differente. Abbiamo anche noi la nostra bolla d’acqua per “pensieri-pesci-rossi”.
“Nel 1954 sparisce anche la TV: siamo all’origine della civiltà dei consumi, dell’immagine e dell’effimero. Dietro c’è un altro mondo, un altro stile di vita”, dice Ugo Volli indicando il fondo della lunga sala, dietro quel primo modello Telefunken che da spento somiglia al monolite dell’Odissea di Stanley Kubrick. Dietro questo totem laico, si nasconde un luogo perduto: quel salotto “per radio sola” che pochi vecchi, ormai, possono raccontarci come fanno con le storie di guerra. Un luogo da cui “tornare al presente e considerare come le nostre case e le nostre vite si siano riempite di merci, il nostro ambiente comunicativo di pubblicità”, scrive Volli. Un presente, in cui “i singoli prodotti si sono saldati insieme per divenire proposte di civilizzazione”, rilancia il sociologo dei consumi Paolo Fabris, indicando probabilmente quella civilizzazione che, ponendosi l’emancipazione dal bisogno come suo scopo precipuo, ha contribuito a rivoluzionare il nostro modo di pensare, agire, produrre, consumare, lavorare, fare arte…
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Questa mostra, che musealizza la pubblicità (linguaggio che stimola il consumo, consumandosi), salva gli oggetti di consumo dal consumo. La strage del tempo non li risparmierebbe, come ha fatto con l’orinatoio o lo scolabottiglie di Duchamp. I “consumabili” -e non la loro molteplice rappresentazione pop- sono una moltitudine divenuta per noi vitale, ma non hanno mai goduto di un valore intrinseco. Sono rimasti al gradino più basso della gerarchia estetica, almeno fino ad oggi, momento in cui la loro propaganda che li sostiene e valorizza viene storicizzata e incorporata nel luogo sacro del museo. E’ la sacralizzazione di un quotidiano impercettibile che non ha più bisogno della mano dell’artista per passare intatto ai posteri. Oggi, che non sappiamo più se siamo noi ad usare le merci o le merci ad usare noi, la pubblicità crea i propri contenuti ed i propri musei, un po’ come il mezzo di McLuhan crea i propri messaggi. Dopo essersi imposta sui nostri desideri e nelle nostre economie, la pubblicità si celebra in museo, in mostre che donano un nuovo senso alla nostra esperienza di consumatori, riportandoci al momento della “scoperta” del primo personal computer, ciclomotore o alimentare liofilizzato come davanti ad un istante topico di disvelamento di una verità escatologica. Intuizione geniale, quella della società dei consumi, che compie il passo verso l’esaltazione storico estetica di una schiera di oggetti, e del loro linguaggio, esiliati dalla cultura “alta”, ma diventati decisivi per il disfacimento (o “secolarizzazione”, a seconda dell’ottimismo) di istituzioni forti e grandi racconti; il tutto a favore della struttura super partes, e squisitamente marxiana, dell’economia.
Lo schermo delle nostre brame è già storia, quindi. Chi non ricorda almeno uno dei tanti slogan che hanno plasmato il nostro ideale di vita più di qualsiasi massima di saggi e poeti? Uno di questi chiudeva in modo forse profetico, indicando la soglia di una nuova antropologia: quella “…per l’uomo che non deve chiedere mai”.


Schermo delle mie brame – Come la pubblicità ha cambiato la vita degli italiani (1954-2004)
A cura di Ugo Volli
Castello di Rivoli – Museo d’arte contemporanea – Piazza Mafalda di Savoia – 10098 Rivoli (TO),
Info: Tel. 011.9565220; info@castellodirivoli.org;
Castello di Rivoli
Ingresso: intero € 6,50; ridotto € 4,50
Orario: da martedì a giovedì 10.00 – 17.00; dal venerdì alla domenica 10.00 – 21.00
Catalogo in DVD


[exibart]


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