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Il gioco delle coppie: il concetto di autorialità secondo Carlo e Fabio Ingrassia
Arte contemporanea
Con l’intervista a Carlo e Fabio Ingrassia parte la nuova rubrica di exibart “Il gioco delle coppie”, a cura di Arianna Rosica. La rubrica presenta artisti che lavorano in coppia (uniti da legami affettivi, amicali o familiari) per capire cosa significhi essere in due ma risultare una singola identità autoriale. Come si confrontano due personalità, magari diverse tra loro ma capaci di dare forma a un’opera che ne sintetizzi il pensiero e la visione? Come pratica e poetica del singolo si esprimono, quando si è in coppia? La rubrica indaga i processi mentali, le interazioni, gli scambi, i dialoghi ma anche gli scontri, che portano dall’ideazione di un’opera fino alla sua realizzazione.
I gemelli Ingrassia, la cui ricerca si basa sul sovvertimento tradizionale dei linguaggi del colore, sono i protagonisti della mostra “Quotidiana”, promossa dalla Quadriennale di Roma e ospitata a Palazzo Braschi fino al 7 maggio 2023, che muove i passi a partire da una riflessione di Michelangelo Pistoletto sulla questione di connessione e unione tra i singoli elementi. Nel presentarci la loro pratica e poetica ci raccontano come, per loro, il lavorare insieme sia una vera e propria necessità e il fatto che ciascuno dei due non abbia mai pensato a realizzare un’opera da solo.
Cosa significa per voi lavorare in coppia?
«Ho fatto un prigioniero e non mi lascia più andare».
Come e perché avete iniziato la vostra ricerca artistica?
«Abbiamo sempre pensato alla pratica del fare opera come ad un esercizio quotidiano, che si fa giorno per giorno. L’organizzazione dell’immagine mentale va predisposta e questo riguarda soprattutto noi, è un fatto fisico, ci predisponiamo fisicamente rispetto all’opera, seguendo la linea del rapporto Opera=Operante».
Il fatto che siate gemelli ha influito su questa scelta?
«Ognuno di noi lavorava distintamente, poi abbiamo iniziato a capire che le strutture del segno consentivano una reciprocità e accoglievano l’altro. La mano del controllo parla al linguaggio del dovere e dell’obbligo, per decidere, pensare con e senza costrizione».
E come organizzate il lavoro quotidiano?
«Bisogna che si riduca l’equivoco tra di noi, per iniziare a discutere».
Le decisioni sono sempre prese di comune accordo?
«Un lavoro lo costruiamo strada facendo. Una lotta all’ultimo sangue si direbbe, gli scontri per noi sono indispensabili per mantenere in vigore funzioni logiche».
C’è sempre sincronia e sintonia nella realizzazione di un’opera?
«I nostri ruoli non sono mai individuali ma individuati, e questo cambia sempre. Non c’è una vera e propria esperienza, lavoriamo senza conoscere i risucchi e le correnti della materia, si disegna dimenticando di disegnare. Per alcuni lavori, il rapporto con la materia non è più visiva, ma si cerca a orecchio. Dobbiamo ascoltare il suono del pastello e quello del tempo, dobbiamo copiare il silenzio, un suono definito e tridimensionale, visualizzando nitidamente le immagini. Bisogna che si metta l’opera a registro».
Vi confrontate con pittura, disegno, scultura e installazione. Cambia il vostro approccio a seconda del cambiamento di scala, tecnica o medium?
«La nostra operazione è quella di far assumere all’opera una conformazione che sembra dotata di una propria vita. È in queste circostanze che il disegno, come organismo, si sente organismo in continua espansione, dal di fuori al di dentro e dal di dentro al di fuori. L’opera, a nostro avviso, è un principio termodinamico».
Cosa rappresenta il colore per voi?
«I nostri non sono colori, ma differenziazione della materia. Sono colori ricettivi, così, pronti! Sviluppano una oggettività visiva estrema, bisogna dare al quadro una resistenza fisica».
E il tempo? I vostri lavori ne richiedono mediamente molto per la realizzazione…
«Nel momento in cui noi osserviamo una cosa, creiamo una certa percezione del tempo. L’osservazione si costituisce come presenza temporale corporea: il tempo del quadro è il tempo della sua architettura. Il nostro è un tempo identico. Non ci prefiggiamo un tempo di chiusura, si parte sempre».
Ci descrivete con le vostre parole la vostra pratica e poetica artistica?
«Aggiungere, registrare, riprodurre. Abbiamo ridiscusso il tema del doppio rovesciando il dispositivo di “duplicazione specchiante, riconducendolo ad una unità, laddove era la messa in scena del doppelganger”, per citare Lacarbonara, di un’intima differenza nel cuore dell’io. In noi vi è il tentativo di riduzione del doppio in unità».