24 marzo 2023

Other identity #54. Altre forme di identità culturali e pubbliche: Manuel Scrima

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Other Identity è la rubrica dedicata al racconto delle nuove identità visive e culturali e della loro rappresentazione nel terzo millennio: intervista a Manuel Scrima

Manuel Scrima, foto Lorenzo Novelli

Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana l’ospite intervistato è Manuel Scrima.

 

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Other Identity: Manuel Scrima

Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?

«L’idea è quella di rappresentare il mio modo di vedere le cose, non la realtà così come si manifesta (o come pensiamo che si manifesti), ma come si trasforma passando attraverso la mia immaginazione. Fotografo sempre quello che prima ho fantasticato, raccontando qualcosa di me stesso, una parte del mondo immaginario che ogni giorno la vita arricchisce con nuovi spunti. Il soggetto principale su cui rifletto sono io nella mia complessità: chi sono? cosa voglio? cosa mi accomuna a chi mi circonda e cosa mi distingue? Lo scopo della vita, e quindi dell’arte, è conoscere se stessi, un viaggio senza fine.

In particolare, nella mia mostra “Disembody” esprimo anche una visione critica della realtà contemporanea, dominata dall’effimero e dal narcisismo patologico – prendi ad esempio i Social Network. Crediamo davvero di essere così importanti da dover far conoscere a tutto il mondo la nostra faccia e ogni nostra opinione? Effettivamente, Facebook è diventata l’oasi perfetta dove costruire l’immagine ideale di noi stessi, mostrandoci intelligenti e brillanti (vanità intellettuale), mentre Instagram è il regno dell’immagine in cui tutti sembriamo belli e impossibili (vanità estetica). Spesso i ruoli si alternano, il limite non è mai così netto. Ad ogni modo, un mondo del genere, dal lato oscuro neutralizzato da glitter e ipocrisia, è semplicemente “mostruoso”.

Detto questo, l’arte, fuor di social, serve anche a questo, a smascherare un mondo virtuale (anche se sempre più inestricabile dal reale) che spesso è pura invenzione, gettando uno sguardo critico sui valori che lo legittimano. Con Disembody reagisco alla bruttura e alla decadenza delle immagini di oggi, proponendo un’estetica classica, con riserbo stilistico, forme ideali e filtrate, non esposte alla volgarità e all’improvvisazione stilistica».

Manuel Scrima, Disembodiedness 010 (Metopa), 2020, fotografia – stampa su lastre di vetro. 100x100cm Courtesy: Fabbrica Eos

Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?

«La mia ricerca artistica parte dal corpo. Ne sono attratto. La forma del corpo, nella sua idea di proporzione, è ciò che contemporaneamente accomuna e distingue tutti gli esseri umani. È una fonte di ispirazione senza fine, grandiosa. Nelle mie mostre ci sono corpi maschili e femminili, quasi sempre velati. A volte non è chiaro il genere rappresentato. Sono corpi disincarnati, che mi permettono di muovermi fra le opere alla ricerca dell’archetipo umano, o, potremmo anche dire, dello stampo originario, quello con cui il Demiurgo di Platone ha plasmato questo nostro mondo sensibile. Il corpo che ho in mente io è un simulacro, uno scrigno di perfezione ipnotica, forma incorrotta ma al contempo annunciatrice della sua nascita, del suo differenziarsi e “venire al mondo”».

Manuel Scrima, Disembodiedness 020 (Galatea), 2020, fotografia – stampa su lastre di vetro e di plexiglass bianco opalino, 100x100cm. Courtesy: Fabbrica Eos

Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?

«Nel mio campo, come del resto ovunque, è iperconsiderata, non si può negare. Ma credo che questa apparenza sociale, che in fin dei conti non è altro che il modo con cui ti guarda e percepisce il mondo, debba essere il frutto del raggiungimento di una propria dimensione personale. E non dico professionale, perché per me ciò che faccio, la mia arte, mi definisce come essere umano prima di qualsiasi altra pressione esercitata dalla società, come il lavoro, ad esempio. In un’epoca in cui quello che si è e quello che si fa è inevitabilmente viziato da filtri artificiali di bellezza, la corrispondenza fra essenza e apparenza non è per niente scontata. Anzi, la frattura si fa siderale. Banalmente, però, credo che l’importante – perlomeno per me – sia essere soddisfatti del proprio modo di stare al mondo. Questa la mia regola di vita».

Manuel Scrima, Disembodiedness 050 (Artemide), 2020, fotografia – stampa su lastre di vetro e di plexiglass bianco opalino, 100x100cm. Courtesy: Fabbrica Eos

Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?

«Il richiamo è senz’altro una tecnica interessante, molto diversa dal plagio. D’altronde prendere spunto dal passato per creare qualcosa di nuovo e personale è la strada di tutti gli artisti. Come tanti, trovo noioso, nei linguaggi artistici contemporanei, tutto quello che ho già visto e che è già stato esplorato, senza variazioni significative che facciano intendere la ricerca dell’artista. Per me il valore dell’opera – o perlomeno una parte del suo valore sta nella novità del messaggio, del contenuto e naturalmente anche della forma con cui essi vengono espressi.

La mia fotografia, per esempio, è evidentemente ispirata alla cultura classica o neoclassica, ma approcciata con spirito inedito, critico, in alcuni casi demistificatore. Quando non seguo i canoni di bellezza classici, lo faccio con consapevolezza, col fine di creare un’immagine di rottura, violare le regole dall’interno. Non posso prescindere dalla mia formazione, dal gusto che ho formato durante l’infanzia e l’adolescenza, ma vivo la mia ricerca artistica in un continuo dialogo con il contemporaneo».

Manuel Scrima, Disembodiedness 060 (Incastro), 2020, fotografia – stampa su lastre di vetro e di plexiglass bianco opalino, 100x100cm. Courtesy: Fabbrica Eos

ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?

«Non mi definisco. Mi interessa realizzare e concretizzare le mie idee, che siano arte, per come viene intesa, o semplicemente arredare casa mia o realizzare una campagna pubblicitaria per elettrodomestici. La mia soddisfazione sta nel dare concretezza all’immaginazione, creare dal magma in fermento una forma che diventa parte del reale. E poi sono cresciuto con il mito di Warhol, che non faceva distinzione tra arte commerciale e arte da galleria. Anche la fotografia di moda, a cui ho dedicato molto tempo, rientra nella mia ricerca personale, anzi è fondamentale per creare nuovi stimoli, proprio perché limita la libertà espressiva e comporta uno sforzo maggiore per ottenere ciò che si vuole».

Manuel Scrima, Disembodiedness 070 (Fiore), 2020, fotografia – stampa su lastre di vetro e di plexiglass bianco opalino, 100x100cm. Courtesy: Fabbrica Eos

Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?

«La mia identità culturale è un misto di cultura italiana, francese, belga e arbëreshë. Senza contare che ho vissuto anni all’estero e tutto questo mi ha fortemente condizionato. Nel 2006 ho lasciato tutto per andare a vivere in Africa e tentare la carriera di fotografo e regista. Ho passato tre anni in Africa per fare ricerca su me stesso a contatto con quella che era la cultura più lontana dai miei orizzonti formativi. Ho vissuto tra le popolazioni tribali della Rift Valley (Kenya, Etiopia, Uganda e sud Sudan), la culla dell’umanità, e grazie a questi incontri ho avuto il privilegio di assorbire anche solo un briciolo della loro sapienza antica e della loro spiritualità. L’incontro con queste culture mi ha costretto a riflette su me stesso, sul mio modo di vivere e vedere la vita, su quello che voglio essere. Alla fine ho capito che non c’è alternativa all’accettarsi, e che comunque l’identità non è mai qualcosa di definito, ma un continuo divenire. Non ho nostalgia del passato, solo del futuro».

Manuel Scrima, Disembodiedness 400 (Mosaico 1), 2020, fotografia – stampa su 400 mattonelle di quarzo (Stone Italiana), 200x200cm. Courtesy: Fabbrica Eos

Biografia

Manuel Scrima è un artista e fotografo/regista nato a Cremona nel 1977 da padre arbëreshë e madre belga. Nel suo lavoro è sempre riconoscibile un’ispirazione di marca classica e neoclassica, con una predilezione per il corpo umano, che costituisce il fil rouge della sua produzione. Nel 2006 inizia il suo periodo africano: “Afrika Awakes”, la sua mostra più celebre, ha girato gallerie e musei con 10 repliche tra Francia, Inghilterra, Irlanda, Finlandia, Italia e Kenya. Le sue immagini restituiscono dignità e bellezza a un Continente distorto dai racconti dei media e per questo vengono sostenute da realtà internazionali come UNESCO, Medici senza Frontiere, Care International. In particolare, nel luglio del 2009, ha esposto al Ramoma, Museo d’Arte Moderna di Nairobi.

Nel 2010 l’UNESCO lo sceglie come artista per una personale a Parigi che celebra la cultura del Kenya. Sempre nel 2010 alcune sue foto più rappresentative sono esposte ad Art Basel Miami. In quegli anni torna a vivere a Milano e decide di mettersi alla prova con la fotografia di moda e comunicazione. Nel 2010 inizia la sua avventura asiatica e la collaborazione con l’artista e stilista Angelo Cruciani. Con lui realizza diversi progetti a cavallo tra Arte, Comunicazione e Moda, (Made in China, She’s Not A Man).

Nel 2012 la sua mostra AfreakA, curata da Alessandro Turci, fa parte del Festival Fotografico Italiano. Sue sono le immagini delle recenti performance e flash mob sull’amore promosse da Angelo Cruciani (2014-2021) e diverse opere fotografiche-pittoriche esposte in LOVVISM (2015).

Nel 2019 esce il suo short film ICEBERG, primo video italiano ad approdare sulla piattaforma World Star Hip Hop, bibbia della musica americana. Successivamente il film è premiato a Los Angeles e ad Atlanta. Sempre nel 2019 arriva anche un premio alla regia a Milano per il fashion film WHOMAN e il premio Alfa alla fotografia ad Aci Reale per la sua carriera. Nel 2020 presenta la mostra Disembody alla Fabbrica Eos Contemporary Art di Milano, con la curatela di Chiara Canali. Le fotografia esposte reinterpretano l’estetica neoclassica in un collage caleidoscopico. Si tratta del punto di arrivo di una sperimentazione decennale in cui – partendo dal nudo antico – lo si disincarna, facendolo diventare altro da sé.

Nel 2021 è uno degli artisti chiamati da Nikon per la collana Master di Fotografia, che costituisce una sorta di enciclopedia della ricerca fotografica italiana allegata al Corriere della Sera. Il suo volume è dedicato al corpo umano e gli permette di vedere retrospettivamente la propria produzione, all’insegna del dialogo sperimentale tra astrazione e figurazione.

Ad agosto 2021 espone a Palazzolo Acreide – Sicilia – insieme a Corrado Levi SEBASTIAN’S, mostra nella quale reinterpreta, attraverso la tecnica perfezionata in Disembody, il martirio di San Sebastiano. Il progetto della mostra fonde in un’unica esperienza l’iconografia cristiana e la statuaria greca classica. A settembre 2021 vince il Vision Award di New York per il video – di cui è ideatore e regista – “PIE” di Sananada Maitreya (ex Terence Trent’t D’Arby), già premiato a New York ai Movie Award di maggio dello stesso anno.

Dal 2018 al 2021 è in corso la preparazione di Prosopon 2030. L’artista incontra 2030 ragazzi della generazione Z e parla loro di futuro e sostenibilità. Da questo percorso nasceranno 2030 ritratti, 2030 voci registrate, 2030 video di occhi sognanti e un collage di 2030 tessuti, ognuno con un desiderio destinato a realizzarsi.

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