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The Last of Us: un’apocalisse profondamente umana, in nove episodi
Film e serie tv
“Fight the dead, fear the living”. Questo è uno dei sottotitoli di The Walking Dead, celebre serie tv targata AMC che esprime in una frase la summa, il nocciolo duro di tutte le storie zombie dal 1968 in poi. Anno de “La Notte dei morti viventi” (Night of the Living Dead), capolavoro diretto da George A. Romero, capostipite del genere, che infatti si conclude con un miliziano che spara all’ultimo sopravvissuto di un gruppo rifugiatosi in una casa di campagna per sfuggire ai morti-viventi. “Nice shot!” replica lo sceriffo.
Sono passati 50 anni e il genere post-apocalittico zombie gode di ottima salute a Hollywood. È del 2021 l’ultimo lungometraggio “Army of Dead” del regista Zack Snyder, che ha seguito le orme del maestro Romero con “Dawn of the Dead” del 2004, remake di “Zombi” (1978), secondo capitolo della saga del regista newyorkese.D’altronde, il post-apocalittico è argomento che da sempre affascina una certa dark-side americana. Vi si ritrovano significati e atmosfere che ricordano il vecchio West. Uno spazio irto di pericoli e imprevisti, di ombre rosse come di libertà e di movimento sconfinato, al di fuori di schemi e lacci istituzionali (e morali). Ma anche una mai sopita voglia di salvare e proteggere (ancora e ancora) il mondo, afflitto da bande di malvagi e malintenzionati.
In fondo l’Apocalisse è una sorta di ricomposizione, di reset di un sistema che volge al collasso. I cristiani con la loro “anàstasis tês sarkòs”, la Resurrezione di tutti gli individui che avveniva dopo il Giudizio Universale e che sanciva la riunificazione delle carni con l’anima (e cioè orde di zombie in giro per il creato).
O come nei film di Romero ove, nonostante gli echi haitiani e voodoo della prima pellicola, emergeva con “Zombi” una chiara critica politica agli “apocalittici” anni ’70. L’annichilimento, da consumi e da benessere, di moltitudini di uomini-zombie che, mossi da un invincibile istinto, si radunano attorno a un centro commerciale. «Un posto che aveva un significato per loro, quando erano vivi».
E non ha fatto eccezione il decennio appena trascorso di “The Walking Dead” (2010-2022), la serie tv cult in cui tutto è stato raccontato in fatto di morti-viventi, infetti, cannibali, gruppi armati, bande di sciacalli e assassini. Un’America allo sbando, devastata, impaurita e senza regole, che cerca nell’autodifesa e nella protezione della piccola comunità, nei legami e negli affetti umani, una via di salvezza.
Cosi quando è stata annunciata “The Last of Us”, la nuova serie tv targata HBO (Sopranos, The Wire, Games of Thrones, Chernobyl, Succession, Euphoria) la domanda che molti cultori del genere horror-zombie si sono fatti era ovvia. Avevamo proprio bisogno di un ennesimo racconto post-apocalittico, post-pandemico e survivalista nell’America di oggi?
I due showrunners, Craig Mazin, autore della celebratissima Chernobyl, e Neil Druckmann, creatore del videogioco originale, quando si sono presi la responsabilità di portare sul piccolo schermo il videogame più premiato (600 premi di categoria tra il 2013 e il secondo capitolo del 2020) e giocato di sempre sapevano che avrebbero dovuto premere su altri tasti. E così è stato. Niente “ammo, food, fuel”, proiettili, cibo, benzina. Serviva altro. Una storia semplice. Un viaggio.
Joel Miller (Pedro Pascal), contrabbandiere in un mondo post-apocalittico del 2023 deve portare l’adolescente Ellie (Bella Ramsey) fuori dalle Q.Z. di Boston, una delle zona di quarantena gestite dalla FEDRA, l’ente militare-sanitario che ha sostituito il governo degli Stati Uniti durante la pandemia di cordyceps, un fungo che ha infestato e distrutto il mondo come lo conosciamo.
Ellie sembra essere immune all’infezione e va portata in un laboratorio delle Fireflies, una milizia ribelle che si oppone alle autorità militari e che spera di ricavarne un antidoto. Da qui l’inizio di un pericoloso cammino, soprattutto interiore, di un’adolescente e di un uomo adulto, spezzati dalle loro storie ma pronti a mettersi in marcia per qualcosa di più grande, che ancora non conoscono. Siamo sull’onda di “Easy Rider” di Dennis Hopper, “The Road” di John Hillcoat e Cormac McCarthy, “Sulla Strada” di Jack Kerouac. Un’America spaesata che si mette in viaggio per ritrovarsi.
Qui infatti il cowboy solitario e individualista alla Clint Eastwood, il pistolero dal cuore duro non solo non sconfigge i cattivi, ma anzi è egli stesso salvato da una ragazzina cazzuta quanto fragile, non solo a colpi di winchester ma anche donandogli una seconda occasione, una chance di vita, perduta nei meandri del suo passato oscuro e dimenticato.
Ma soprattutto viene meno l’idea, la possibilità di poter fare qualcosa, di poter agire e cambiare le cose. Il mondo è veramente perduto, la natura, nella veste del cordyceps si è ripresa tutto. E ancora una volta emerge il meccanismo di updating, di “aggiornamento” del sistema, del nostro mondo che sa fare senza di noi. Un’impotenza ecologica e tecnologica che, più della vendetta della natura, ha scatenato la nostra furia, intima quanto strutturale. I grattaceli sventrati dai missili, le auto annichilite dai caccia dell’aviazione, i saccheggi e le devastazioni delle folle impaurite non sono effetti di un’Argameddon millenarista o consumistico-antropologica ma della violenza autoimmune degli esseri umani, pronti a scatenarsi su se stessi. È, in fondo, il mondo di oggi. Non ci sono stalkers, clickers, bloaters ma agenti e vittime sotto altre vesti.
Ed è proprio questo il punto che distanzia maggiormente videogame e serie tv. Nei fendenti di Ellie, assestati contro sani e infetti con un affilatissimo coltello da caccia donato dalla madre che non ha mai conosciuto. Nel gameplay, le scariche di adrenalina dettate dai combattimenti, come dalle numerose e inevitabili fughe, diventano un meccanismo catartico, di liberazione dalla paura e dal mostruoso che ogni volta sta per coglierci.
Qualcosa di ben diverso dal lavoro di Mazin e Druckmann. Si è fatto cinema a tutti gli effetti. Alla regia due autori di prim’ordine del cinema internazionale: Jasmila Žbanić (Quo vads, Aida e Il Segreto di Esma) e Ali Abbasi (Holy Spider, Border – Creature di confine). La fattura dei primi episodi della serie è senza dubbio all’avanguardia dal punto di vista registico, ritmico e scenografico. Ambientazioni ampie e coinvolgenti, flashback, sideback e innesti documentaristici che hanno arricchito la trama del videogame, potenziando con il procedere degli episodi il motore emozionale della storia, totalmente a discapito della componente action-adventure.
Note dolenti queste per lo sterminato fandom di gamers dei due capitoli di Last of Us che ha seguito con spasmodica attesa (e poi delusione) l’uscita della serie tv. In fondo ci si aspettava altro perché il modo di fare narrazione è sicuramente mutato in questi anni grazie alle serie tv, agli universi espansi (Marvel e Star Wars tra tutti), ai videogames sempre più immersivi e creativi (Mincreaft, Gta, Red Dead Redempion, Forza Horizon 5), soprattutto con un mercato in costante espansione (150 miliardi di dollari di fatturato nel 2021 sia per cinema/piattaforme streaming che per gaming/e-sport ma questi con crescita annuale doppia).
Dopo anni di trasposizioni videoludiche (Resident Evil, Arcane, Cowboy BeBop, Tomb Rider e altri titoli in uscita come Fallout, Twisted Metal, Far Cry etc) i tempi sembravano maturi per un’affermazione non solo cinematografica ma anche sensoriale, percettiva del prodotto.
The Last of Us in effetti aveva i numeri per lanciare un ponte tra questi due mondi, coniugare spazio-temporalità seriale e video-ludica con una profondità visuale ed emozionale dell’arte cinematografica. Eppure questa attesa rivoluzione della percezione non c’è stata nemmeno stavolta. Anzi sono rimaste le ferree regole della settima arte. Una storia semplice, ispirata e due bravi attori. Probabilmente dobbiamo aspettare nuove tecnologie per questo salto. Oppure, probabilmente, una nuova apocalisse. L’ennesima.