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Una corona a testa in giù: la performance di Filippo Riniolo da AlbumArte
Arte contemporanea
Come in ogni udienza di un procedimento giudiziario, nell’aula di tribunale possono essere presenti le parti e i testimoni. Il pubblico che ha assistito a A crown upside down/Una corona a testa in giù, era seduto come se fosse in un’aula, chiamato ad essere testimone dell’azione messa in atto il 28 marzo 2023 negli spazi di AlbumArte, a Roma. Ideata da Filippo Riniolo con la partecipazione di Francesco Marsili, la performance è avviata da un brano di musica elettronica che accompagna l’ingresso dei due protagonisti. I due si accomodano l’uno di fronte all’altro su di una seduta essenziale. Ognuno fissa il proprio sguardo negli occhi dell’altro.
Filippo traccia su di un foglio bianco il disegno della sua barba, unico modo di tracciare delle coordinate per la voluta assenza di uno specchio. Francesco prende un rasoio a mano libera, lo carica di una lametta, inizia a tagliare la barba di Filippo e pone i peli nei corrispondenti tratti disegnati sul foglio. Finita la rasatura, Filippo prende i relativi peli e li fissa sul volto imberbe di Francesco. Che, alla fine, impreziosisce con della foglia d’oro. E l’emozione di Francesco è ormai tangibile. Nel continuo contatto visivo, accompagnato anche da impercettibili bisbigli, i due si stringono le mani, si ringraziano a vicenda, si alzano e si allontanano dalla scena. Un diverso brano musicale accompagna l’uscita dei due protagonisti.
Se l’azione rimanesse narrata solamente in questo modo, didascalico e asciutto, risulterebbe una performance con un’architettura semplice, presentando un’impostazione pressoché discorsiva. Ma è il non detto, il non visibile, che acquista un valore non quantificabile, che gli conferisce un profondo significato simbolico. Perché quei semplici gesti, quell’elementare rappresentazione, hanno l’enorme portata culturale e sociale, di mettere davanti agli occhi del pubblico una questione, apparentemente evidente, ma in realtà, articolata quanto complicata, con tanti, anzi troppi, risvolti psicologici ed emotivi.
Perché, nonostante il nostro impianto legislativo preveda la possibilità di intraprendere un percorso di riassegnazione chirurgica e/o anagrafica (con legge del 1982, decreto del 2011, sentenza della Corte costituzionale del 2017), tale percorso è ancora molto difficile e spinoso, a partire dai pregiudizi per il riconoscimento sociale. E il transessuale che decide di far coincidere il proprio genere con le caratteristiche sessuali ad esso appartenente, che può essere discordante con quello assegnato alla nascita in base alle connotazioni fisiche, è costantemente posto di fronte a nuovi ostacoli. Proprio quando è presa tale decisione, sicuramente travagliata e sofferta, che inizia un’altra fase del difficoltoso percorso: quello di ottenere la diagnosi di incongruenza di genere e iniziare una terapia ormonale sostitutiva per modificare le caratteristiche sessuali secondarie.
Terminata anche questa seconda fase, ne inizia una terza, forse la più estenuante, perché ha a che fare con la burocrazia afferente al processo di rettificazione di attribuzione di sesso. Fase che a sua volta prevede due passaggi ben distinti: la presentazione di un’istanza al Tribunale per ottenere l’autorizzazione al trattamento chirurgico per la riassegnazione del sesso; la seconda, sempre al Tribunale, per ottenere la rettifica dei dati anagrafici su tutti i documenti ufficiali. Anche in questo passaggio, però, possono verificarsi fatti insensati, perché il giudice chiamato a riassegnare giuridicamente il genere discrezionalmente può decidere se la persona che ha avanzato l’istanza effettivamente è sufficientemente maschio o femmina. Quando di fronte al giudice si presenta un uomo nato biologicamente donna, come elemento di valutazione può essere preso la barba, attuando l’equazione barba folta=abbastanza uomo.
Considerazione che però, ben sappiamo, è scollata dalla realtà perché molti maschi cisgender non hanno la barba o addirittura sono glabri. E quella barba, che in un Tribunale può essere l’ago della bilancia, è quel simbolo maschile frutto di una cultura ancora machista, che incorona il volto e gli conferisce quella superiorità sociale. E proprio il 28 marzo, il giorno della sentenza di riassegnazione giuridica del genere per Francesco, Filippo dona la sua barba affinché il suo amico non incappi anche in questo possibile finale scherzo legislativo, frutto di profondi stereotipi patriarcali. Un gesto all’insegna del totale affidarsi l’uno all’altro. E siccome, come alcuni sostengono, l’arte non può cambiare, può però far riflettere. E seppure non dica la verità, può mostrarla e parlare di temi che, purtroppo, in molti, preferirebbero sottacere.