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Globalizzazione

di - 9 Maggio 2001

di Saskia Sassen
Controgeografia della globalizzazione
La globalizzazione e le reti digitali hanno contribuito alla nascita di una nuova spazialità entro cui si muovono la politica, l’arte e gli operatori culturali che, così facendo, hanno contribuito alla produzione di controgeografie della globalizzazione. Come succede per le grandi corporazioni mondiali, anche queste controgeografie possono nascere su scale diverse. Le reti digitali possono essere utilizzate dagli attivisti politici in transazioni globali o non locali, e possono servire per rafforzare comunicazioni e transazioni locali all’interno di una città. Identificare possibili modi in cui la nuova tecnologia digitale possa sostenere iniziative e alleanze locali, tra un quartiere e l’altro di una città, è importantissimo in un’epoca in cui la nozione di locale sembra spesso perdere terreno di fronte a dinamiche e agenti globali. [Cfr. Lovink e Riemens 2001.]

Per descrivere queste reti “alternative” ricorro al concetto di controgeografie perché esse sono strettamente correlate ad alcune delle principali dinamiche costitutive della globalizzazione, ma non appartengono all’apparato formale del capitale sociale globalizzato, né ne condividono gli obiettivi: formazione di mercati globali, intensificazione di network transnazionali e translocali, sviluppo di tecnologie della comunicazione in grado di sottrarsi con facilità alle normali pratiche di sorveglianza. Il rafforzamento e, in alcuni casi, la formazione di nuovi circuiti globali è reso possibile dall’esistenza di un sistema economico globale e dal relativo sviluppo di sostegni istituzionali favorevoli a mercati e flussi di denaro sovranazionali. Le caratteristiche di luogo di queste controgeografie sono dinamiche e mutevoli, comprendendo una vastissima gamma di attività – dalle reti culturali e i network dei media activists, alle attività criminali come il traffico di esseri umani.

Reti culturali di frontiera
Stiamo assistendo alla nascita di reti culturali sempre più ampie, capaci di attraversare i confini come nel caso dei mercati artistici internazionali e di una nuova classe transnazionale di curatori. Pur non essendo questo il mio terreno di ricerca, la mia ipotesi è (sperando che esistano ricerche in merito) che questa crescita stia producendo nuove forme e possibilità organizzative nel mondo dell’arte e della cultura in generale. Uno degli elementi cardine della globalizzazione economica è lo sviluppo di un’infrastruttura tecnica e organizzativa che faciliti i flussi di frontiera e protegga i dettami e le garanzie contrattuali ad essa relativi. Una volta esistente, tale infrastruttura servirà anche a facilitare altri generi di flussi. Possiamo stabilire un paragone con il caso delle arti?

Le Biennali internazionali esistono da molti anni, tuttavia oggi ci sono segnali indicanti una svolta diversa. L’infrastruttura tecnica esistente, frutto della globalizzazione economica, rende più facile tutta la gamma di attività di assistenza specializzate che il flusso dell’arte attraverso i vari confini richiede (assicurazione, contabilità, garanzie di vario genere). A questo punto c’è da chiedersi se tale infrastruttura faciliti il compito alle nuove organizzazioni che desiderano imbarcarsi in progetti internazionali. Transazioni attraverso i confini, un tempo appannaggio esclusivo di grosse organizzazioni come le biennali o i musei più affermati, oggi sono una possibilità per una più ampia fascia di organismi e città. Oppure è vero che la posizione di dominio delle istituzioni di maggior spicco ne risulta rinforzata, con la conseguente creazione di un network allargato di città partecipanti e un rafforzamento della gerarchia di potere all’interno di quello stesso network, come accade nel campo della finanza globalizzata? Accanto all’infrastruttura tecnica, inoltre, la globalizzazione ha portato con sé una maggiore circolazione di significati e concetti in vari domini istituzionali. La crescente partecipazione, nei circuiti di frontiera, di istituzioni non tanto affermate e dominanti condurrà a una maggiore diversificazione nella circolazione di significati e concetti, e ad un aumento della contestazione? In ultimo, assistiamo all’emergere di un immaginario transnazionale che si unisce alla vera e propria infrastruttura tecnica e organizzativa per le transazioni di frontiera. Se si tratta di un immaginario costruito dalle istituzioni più in vista del mondo artistico e culturale, si rischia di incorrere in un processo di “occidentalizzazione” e di appropriazione/elaborazione di elementi non occidentali…

Tutte queste condizioni creano i presupposti per un sempre maggiore superamento di confini da parte di artisti, curatori, musei e città – nell’ultimo caso, soprattutto con il lancio di nuove biennali. Almeno in teoria, città e musei con risorse limitate potranno così partecipare più facilmente a queste manifestazioni, e de facto diverrà normale vedere sempre più artisti alle biennali, alle mostre e, in una certa misura, nelle gallerie di tutto il mondo. Eppure i sistemi di potere odierni, come succede anche nel mondo finanziario, negoziano una dinamica sempre più basata sulla dispersione/incorporazione e sul rafforzamento delle funzioni centrali di comando. Come funzionano queste dinamiche in ambito artistico e culturale? Il rafforzamento delle reti di frontiera anche tra i meno dotati di potere e risorse renderà possibile la nascita di circuiti alternativi?

Una politica dei luoghi per i circuiti globali
Grazie a Internet, le iniziative locali sono entrate a far parte di in una rete globale di attivismo, senza per questo perdere di vista le lotte più circoscritte. La rete rende possibile un nuovo tipo di attivismo politico transnazionale, con centri in località differenti ma saldamente collegate tra loro digitalmente. Gli attivisti possono creare reti utili non solo alla circolazione di informazioni (sui problemi ambientali, politici, legati agli alloggi ecc.), ma anche al flusso di iniziative e strategie politiche.

Abbiamo molti esempi di questo nuovo genere di attività politica transnazionale. SPARC, per esempio, nacque come iniziativa fondata da e rivolta alle donne, con lo scopo di aiutare gli abitanti delle baraccopoli di Bombay nella ricerca di una vera abitazione. Oggi questa iniziativa vanta una rete di gruppi simili in tutta l’Asia e in alcune città dell’America Latina e dell’Africa, ciascuno dei quali è alle prese con il proprio governo, pur appartenendo a un network mondiale. L’uso critico della politica favorito da Internet è essenzialmente questo: una politica della sfera locale con una grossa differenza – ciascun luogo è collegato agli altri oltre i confini regionali e nazionali, nel mondo intero. Il fatto che la rete sia globale non significa che tutto debba accadere a livello mondiale.

L’attuale impiego dei mezzi di comunicazione digitali in questo nuovo tipo di attivismo politico transnazionale suggerisce due ampie categorie di attivismo digitale: la prima è quella dei gruppi veri e propri di attivisti, facenti capo a città o a comunità rurali e collegati ad altri gruppi simili di tutto il mondo. Il secondo tipo di politica incentrata sui network digitali svolge la maggior parte del proprio lavoro all’interno delle reti digitali stesse, e non necessariamente converge sul terreno reale dell’attivismo (come accadde per esempio a Seattle durante la conferenza del WTO). La maggior parte dell’attività politica e dei relativi sforzi sono concentrati sulle operazioni che si svolgono all’interno della rete digitale. L’organizzazione della protesta contro l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti fu in larga misura un evento digitale, ma quando queste azioni politiche toccano terra, possono farlo in maniera efficacissima, soprattutto nei luoghi di grande concentrazione come le città.
La vasta città odierna, specialmente la metropoli globalizzata, emerge come un luogo chiave per questo nuovo genere di operazioni. È un luogo strategico per il capitale delle corporazioni societarie globalizzate, ma allo stesso tempo è uno dei teatri su cui si materializzano le nuove esigenze di figure politiche informali (o non ancora formalizzate). La perdita di potere a livello nazionale lascia spazio alla possibilità di nuove forme di potere e politica a livello subnazionale. La sfera nazionale come contenitore di mutamenti e potere sociale è incrinata, [Cfr. Taylor 2000] e l’incrinatura lascia trapelare nuove possibilità per una geografia politica che collega tra loro gli spazi subnazionali e consente alle figure politiche non formali di assorbire elementi strategici del capitale globale.

La rete transnazionale delle città globalizzate è uno spazio entro il quale osserviamo la formazione di nuovi tipi di politica “globale” dei luoghi, capaci di sfidare la globalizzazione delle corporazione. Le manifestazioni della rete anti-globalizzione sono un segnale che ci mostra quante sono le possibilità di sviluppare una politica incentrata sui luoghi, intesi come località appartenenti a network globalizzati. Siamo di fronte a una politica specifica per ogni luogo, eppure di portata globale. È un tipo di iniziativa politica profondamente radicata nelle azioni e nella attività delle persone, ma in parte resa possibile dall’esistenza di collegamenti digitali globalizzati. Si tratta, inoltre, di una forma di azione politica mirante alla creazione di nuove istituzioni e incentrata su città, reti di città e protagonisti politici non formali. È facile riconoscere il potenziale di trasformazione di un’intera gamma di condizioni o domini istituzionali “locali” (per esempio il nucleo famigliare, la comunità, il quartiere, le entità scolastiche e sanitarie locali), entro le quali, per esempio, le donne “confinate” nei ruoli domestici mantengono un ruolo fondamentale. Questi luoghi, un tempo vissuti o sperimentati come non politici o esclusivamente domestici, diventano “microambienti di portata globale.”

Con questa definizione alludo al fatto che la possibilità tecnica di collegamento reciproco creerà una varietà di link con altre entità locali simili, appartenenti ad altri quartieri della stessa città, ad altre città e ad altri paesi. Nasceranno prassi comuni che daranno inizio a comunicazioni, solidarietà ed esempi di sostegno multipli, laterali, orizzontali – tutto questo permetterà agli attori politici e non politici a livello locale di fare il loro ingresso nella politica di frontiera.

Per la politica, lo spazio urbano rappresenta uno spazio di gran lunga più concreto di quello nazionale. La città diventa il luogo dove i protagonisti della politica non formale possono partecipare alla scena politica, in un modo che sarebbe molto difficile a livello nazionale. A questo livello, infatti, la politica deve necessariamente incanalarsi nei sistemi formali esistenti, siano questi il sistema politico elettorale o quello giudiziario (come nel caso delle cause contro gli enti statali). I protagonisti della scena politica non formale diventano invisibili nello spazio della politica nazionale. La città accoglie una vasta gamma di attività politiche (squatting, manifestazioni contro la violenza della polizia, lotte per i diritti degli immigrati e dei senza casa, la politica della cultura e dell’identità e di gay, lesbiche e queer), molte delle quali acquisiscono visibilità nelle strade. Gran parte della politica urbana è concreta, messa in atto dalle persone piuttosto che essere legata alle tecnologie massmediatiche. La politica della strada rende possibile la formazione di nuovi tipi di soggetti politici, i quali non devono necessariamente affrontare la trafila del sistema politico formale.

In questo senso chi è senza potere, svantaggiato, outsider, appartenente a una minoranza discriminata, può aumentare la propria presenza nelle città globalizzata – presenza a diretto confronto con il potere e gli uni di fronte agli altri. [Sassen 1998, cap. 1]. A mio parere, in questo dobbiamo vedere il segno della possibilità di creare una politica nuova, incentrata su nuove figure politiche. Non è solo questione di avere o non avere potere – sono le nuove e ibride basi da cui cominciare ad agire.

Nell’ambito di questo più ampio e ricco contesto, gli usi politici delle tecnologie digitali possono radicarsi entro il livello locale. Si tratta di una politica evidentemente parziale, ma potrebbe essere un tassello importante della politica che mira alla giustizia globale ed esige l’affidabilità del potere globalizzato delle corporazioni. Stiamo assistendo all’emergere di una politica de-nazionalizzata, che ha al suo centro i territori urbani e opera tramite reti globali di città: un tipo di politica globalizzata che non deve attraversare nessuno stato mondiale né un livello sovranazionale. Al contrario, attraversa molti luoghi ma impegna il globale, con la possibilità di definire una controgeografia della globalizzazione. Forse questo processo è appena cominciato.


Isin, Engin F. (a cura di). 2000. Democracy, Citizenship and the Global City, Londra e New York, Routledge.
Lovink, Geert e Riemens, Patrice. 2001. “Digital City Amsterdam: Local Uses of Global Networks,” in Sassen (a cura di), Global Networks/City Links, Londra e New York, Routledge.
Sassen, Saskia. 2001. The Global City: New York, London, Tokyo, Princeton, Princeton University Press. (Nuova edizione aggiornata, prima ed. 1991.)
—- — 1998. Globalization and its Discontents, New York, New Press.
Taylor, Peter J. 2000. “World cities and territorial states under conditions of contemporary globalization,” Political Geography 19 (5): 5-32.

Nota biografica:
Saskia Sassen è Ralph Lewis Professor di Sociologia presso la University of Chicago e Centennial Visiting Professor presso la London School of Economics. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Guests and Aliens (New York, New Press 1999) e la cura del volume Global Networks/City Links (Londra e New York, Routledge 2001). Nuove edizioni aggiornate di Cities in a World Economy e The Global City usciranno entro il 2001. I suoi libri sono stati tradotti in dieci lingue. È codirettrice della sezione economica del Global Chicago Project e presiede il nuovo Information Technology, International Cooperation and Global Security Committee del SSRC.




Verso una società globale aperta, di George Soros

Comincerò con una considerazione ovvia: è vero, viviamo in un’economia globalizzata. Detto questo, però, è importante chiarire che significato attribuiamo a questa affermazione. Un’economia globale non è caratterizzata solo dalla libera circolazione di beni e servizi, ma anche, e quel che più conta, dalla libera circolazione di idee e capitale. Questo vale per gli investimenti diretti e per le transazioni finanziarie: sebbene entrambi i tipi di operazioni siano diventati sempre più importanti dopo la Seconda guerra mondiale, la globalizzazione (dei mercati finanziari in particolare) ha subìto una tale accelerazione negli ultimi anni da creare un’intima interconnessione tra i tassi di cambio, i tassi di interesse e i valori azionari dei vari paesi. Da questo punto di vista i mercati finanziari sono talmente cambiati, nei quarant’anni in cui me ne sono occupato, da risultare quasi irriconoscibili. Bisognerebbe pensare alla “global economy” come al sistema capitalistico globale. L’integrazione globale ha prodotto vantaggi notevolissimi: i vantaggi derivanti dalla divisione internazionale del lavoro (egregiamente dimostrati dalla teoria del vantaggio relativo), i vantaggi dinamici quali le economie di scala e la rapida diffusione delle innovazioni da un paese ad un altro (i quali sono meno facili da dimostrare con la statica teoria dell’equilibrio), e i vantaggi ugualmente importanti di carattere non economico, quali la libertà di scelta che accompagna la circolazione internazionale di beni, capitali e persone, e la libertà di pensiero che accompagna la circolazione internazionale delle idee. Il capitalismo globale, tuttavia, ha i suoi problemi, e noi dovremo capirli meglio se vogliamo che il sistema sopravviva. Io sono convinto che i vantaggi dell’attuale sistema capitalistico globale potranno essere preservati solo sforzandosi con volontà e costanza di correggere e contenere le carenze del sistema stesso. È qui che entro in urto con l’ideologia del laissez-faire, secondo la quale i liberi mercati sono in grado di autosostenersi e gli eccessi del mercato di correggersi da sé, a patto che governi e regolatori non interferiscano con il meccanismo di autocorrezione. Possiamo raggruppare le carenze del sistema capitalistico globale in cinque categorie principali: iniqua distribuzione dei benefici, instabilità del sistema finanziario, minaccia incombente di monopoli e oligopoli globali, ruolo ambiguo dello stato e problema dei valori e della coesione sociale. Le categorie sono in una certa misura arbitrarie, è ovvio, e le diverse aree problematiche sono tra loro connesse. I vantaggi del capitalismo globale sono iniquamente distribuiti. In generale, il capitale si trova in una situazione di gran lunga migliore rispetto a quella della manodopera, perché è più mobile. La situazione del capitale finanziario all’interno del sistema globale, inoltre, è migliore di quella del capitale industriale – una volta costruito uno stabilimento, non è semplice spostarlo. Alle grosse aziende multinazionali derivano indubbi vantaggi dalla flessibilità dei prezzi di transfer e dalla possibilità di esercitare pressioni al momento delle decisioni riguardanti gli investimenti, eppure la loro flessibilità non è paragonabile con la libertà di scelta degli investitori in titoli internazionali. Anche l’essere al centro dell’economia globale piuttosto che in una posizione periferica offre i suoi vantaggi. Tutti questi fattori si uniscono per attirare i capitali verso il centro finanziario, e spiegano l’importanza sempre crescente dei mercati finanziari. I mercati finanziari sono inerentemente instabili, e quelli internazionali lo sono in modo in particolare. I movimenti internazionali di capitale sono noti per il loro andamento che alterna boom e crisi. Nel momento di boom il capitale circola dal centro alla periferia, ma quando la fiducia vacilla esso tende a ritornare alla propria fonte. L’instabilità, tuttavia, non è appannaggio esclusivo del sistema finanziario. Lo scopo dei competitori è quello di prevalere, non di preservare la competitività nei mercati. La naturale tendenza all’espansione che caratterizza monopoli e oligopoli va contenuta per mezzo di regole e norme. Il processo di globalizzazione è troppo recente per essere considerato un problema grave a livello globale, ma siamo di fronte a un processo storico e prima o poi questo succederà.
Ma chi ha il compito di prevenire le concentrazioni indebite di potere e di preservare la stabilità nei mercati finanziari? Questo ci porta al ruolo dello stato. A partire dalla Seconda guerra mondiale lo stato ha svolto un ruolo crescente nel mantenimento della stabilità economica, sforzandosi di assicurare pari opportunità e fornendo una rete di previdenza sociale, in particolar modo nei paesi altamente industrializzati di Europa e Nord America. La capacità dello stato di badare al benessere dei propri cittadini, tuttavia, è stata pesantemente danneggiata dalla globalizzazione del sistema capitalistico, la quale permette al capitale di sottrarsi alla tassazione molto più di quanto non possa fare la manodopera. Il capitale tenderà ad evitare i paesi dove la manodopera è pesantemente tassata o pesantemente protetta, e questo provocherà una crescita della disoccupazione, come è successo nell’Europa continentale. Non sto difendendo gli antiquati sistemi europei di previdenza sociale, i quali hanno urgente bisogno di una riforma; piuttosto, esprimo la mia preoccupazione di fronte al calo degli stanziamenti di tipo sociale in Europa e in America. Come ha affermato l’esperto di economia internazionale Dani Rodrik, la globalizzazione crea maggiori pressioni sullo stato affinché questo elargisca servizi di previdenza sociale, mentre allo stesso tempo riduce la possibilità dello stato di agire in questo senso. È così che nasce il seme del conflitto sociale. Eccessivi tagli ai servizi sociali nel momento di crescita dell’instabilità potrebbero provocare, sulla spinta del risentimento popolare, una nuova ondata di protezionismo negli Stati Uniti e in Europa, specialmente se (o quando) al boom attuale dovesse seguire una crisi di una qualche gravità. Questo potrebbe portare a un crollo nel sistema capitalistico globale, proprio come avvenne negli anni Trenta. Diminuendo l’influenza dello stato aumenta il bisogno di cooperazione internazionale, ma tale cooperazione è contraria, da un lato, alle idee prevalenti del laissez-faire e, dall’altro, a quelle del nazionalismo e del fondamentalismo.
Lo stato ha avuto anche un altro ruolo nello sviluppo economico: nei paesi dove il capitale locale era scarso si è alleato con gli interessi affaristici locali, aiutandoli nell’accumulazione di capitale. Il modello ha funzionato, ma ha fatto sorgere alcune domande sul rapporto tra capitalismo e democrazia. È evidente che un regime autocratico è più favorevole alla rapida accumulazione di capitale di quanto non lo sia un regime democratico, e che un paese ricco è più favorevole allo sviluppo di istituzioni democratiche rispetto a uno povero. È dunque ragionevole prevedere un modello di sviluppo che va dall’autocrazia e dall’accumulazione di capitale verso la ricchezza e la democrazia. Eppure la transizione dall’autocrazia alla democrazia è tutt’altro che certa: chi è in una posizione di forza si aggrappa con tenacia al proprio potere. Arriviamo così al gruppo di problemi più nebuloso: il problema dei valori e della coesione sociale. Tutte le società hanno bisogno di valori comuni che funzionino da legante, e i valori di mercato non sono in grado, da soli, di svolgere questa funzione, poiché riflettono esclusivamente la cifra che un partecipante al mercato è disposto a pagare ad un altro all’interno di un libero scambio. I mercati riducono tutto, compresi gli esseri umani (manodopera) e la natura (terra), a delle merci. Può esistere un’economia di mercato, ma non una società di mercato. La società non ha bisogno solo di mercati, ma anche di istituzioni al servizio di obiettivi sociali quali la libertà politica e la giustizia sociale. Simili istituzioni esistono nei singoli paesi, ma non nella società globale. Lo sviluppo di una società globale è rimasto indietro rispetto alla crescita dell’economia globale e, se questo divario non sarà sanato, il sistema capitalistico globale non sopravviverà. Quando parlo di una società globale, non mi riferisco a uno stato globalizzato. Gli stati sono notoriamente imperfetti anche a livello nazionale. Dobbiamo trovare soluzioni nuove per far fronte a una situazione inedita, pur non essendo la prima volta che si delinea un sistema capitalistico globale. Condizioni simili prevalsero a cavallo del secolo: allora il sistema capitalistico globale era tenuto insieme dalle potenze imperiali, e fu a causa del conflitto tra tali potenze che esso si disgregò. Ma i giorni dell’impero sono finiti. Per sopravvivere, l’attuale sistema capitalistico deve soddisfare necessità e aspirazioni dei propri partecipanti. La nostra società globale racchiude in sé molte abitudini, tradizioni e religioni diverse: dove può trovare i valori comuni in grado di tenerla unita? Vorrei proporre l’idea di quella che chiamo la società aperta come un principio universale, capace di riconoscere la diversità inerente nella società globale fornendo allo stesso tempo una base concettuale per creare le istituzioni di cui abbiamo bisogno. Mi rendo conto di quanto sia arduo far accettare un principio universale, ma non vedo come possa essere altrimenti.
CHE COS’È la società aperta? A un livello superficiale, è un modo per descrivere gli aspetti positivi della democrazia: il massimo grado di libertà compatibile con la giustizia sociale. È caratterizzata dal predominio della legge, dal rispetto per i diritti umani, le minoranze e le opinioni minoritarie, dalla divisione dei poteri e da un’economia di mercato. I principi della società aperta sono mirabilmente esposti nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti. Ma la Dichiarazione afferma: “Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti,” mentre i principi della società aperta sono tutto, tranne che di per sé evidenti; per imporli sono necessarie argomentazioni convincenti.
Esiste un solido assunto epistemologico, elaborato da Karl Popper, in favore della società aperta: la nostra comprensione è intrinsecamente imperfetta; la verità ultima, il progetto perfetto di società, sono al di là delle nostre possibilità. Siamo costretti, dunque, ad accontentarci della seconda scelta: una forma di organizzazione sociale non all’altezza della perfezione ma passibile di miglioramento. Il concetto della società aperta è questo: una società aperta al miglioramento. Maggiore è il numero di condizioni che mutano (e una società globale favorisce il mutamento), più il concetto diventa importante. Ma l’idea di una società aperta non è largamente accettata, anzi: il suo assunto epistemologico non è nemmeno preso in seria considerazione, e l’idea di una società globale aperta è spesso oggetto di esplicito rifiuto. C’è chi, per esempio, afferma che in Asia i valori sono diversi. Certo che lo sono. La diversità è una caratteristica della società globale. Ma la fallibilità è una condizione umana universale e, una volta presone atto, abbiamo trovato un terreno comune per la società aperta, la quale celebra questa diversità. Il riconoscimento della nostra fallibilità è necessario ma non sufficiente ad elaborare il concetto di società aperta. È necessario combinarlo con un certo grado di altruismo, con qualche preoccupazione per gli altri esseri umani basata sul principio di reciprocità.
Qualunque valore, sia esso asiatico o di altra provenienza, può adattarsi a una società aperta purché contemporaneamente viga il rispetto di alcuni altri valori universali che riflettono la nostra fallibilità e l’interesse per gli altri (per esempio la libertà di espressione e il diritto a un giusto processo). La democrazia occidentale non è la sola forma possibile per una società aperta. Anzi, il fatto che la società aperta debba assumere una varietà di forme è una conseguenza dell’assunto epistemologico, e in questo stanno la forza e la debolezza dell’idea, la quale fornisce un modello concettuale da riempire con contenuti specifici. Le decisioni sui dettagli spettano a ogni singola società e periodo storico.
Come modello concettuale la società aperta è migliore di qualsiasi piano, compreso il concetto di concorrenza perfetta. La concorrenza perfetta presuppone un tipo di conoscenza che travalica le possibilità dei partecipanti dei mercati e descrive un mondo ideale che poco somiglia alla realtà. I mercati non funzionano in un vuoto e non tendono all’equilibrio. Operano in uno scenario politico e si evolvono in maniera riflessa. Quello della società aperta è uno schema più completo. Riconosce i meriti del meccanismo di mercato senza idealizzarlo, ma riconosce anche il ruolo di valori diversi da quelli di mercato all’interno della società. Allo stesso tempo, si tratta di un concetto molto più vago e indefinito, il quale non è in grado di spiegare in che modo le varie sfere (economica, politica, sociale e altre) dovrebbero essere separate e poi riconciliate tra di loro. Non necessariamente tutti saranno d’accordo su dove tracciare la linea di demarcazione tra concorrenza e cooperazione (Karl Popper e Friedrich Hayek, due paladini della società aperta, si sono divisi proprio su questo punto).
Vorrei ora riassumere quelle che sono, a mio parere, le necessità specifiche della società globale aperta in questo momento storico. Abbiamo un’economia globale con alcune carenze, le più vistose delle quali sono l’instabilità dei mercati finanziari, l’asimmetria tra centro e periferia e le difficoltà di tassazione del capitale. Fortunatamente esistono alcune istituzioni internazionali che si occupano di questi problemi, ma dovranno essere rafforzate e il loro numero dovrà forse aumentare. Il Comitato di Basilea sulla Supervisione Bancaria (Basel Committee on Banking Supervision) ha fissato requisiti di adeguatezza di capitale per il sistema bancario internazionale, ma questi non sono bastati ad evitare l’attuale crisi bancaria del il sud-est asiatico. Non esiste una authority internazionale che regoli i mercati finanziari, e la cooperazione internazionale per la tassazione del capitale è insufficiente. Eppure le vere carenze sono estranee al campo economico. Lo stato non può più svolgere il suo ruolo tradizionale. Questo è da molti punti di vista una benedizione, ma alcune delle funzioni dello stato rimangono inadempiute. Non disponiamo di adeguate istituzioni internazionali per la protezione delle libertà individuali, dei diritti umani e dell’ambiente, o per la promozione della giustizia sociale. – per non parlare del mantenimento della pace. La maggior parte delle istituzioni esistenti sono associazioni di stati, e gli stati tendono a porre i propri interessi al di sopra di quelli comuni. La Nazioni Unite sono costituzionalmente incapaci di mantenere le promesse contenute nel preambolo della loro Carta. Manca, infine, il consenso circa la necessità di creare istituzioni internazionali migliori.
Che fare? Dobbiamo sancire solidi criteri di comportamento per la limitazione della corruzione, l’applicazione di norme lavorative eque e la protezione dei diritti umani – e abbiamo appena cominciato a riflettere sul da farsi. In questo momento il sistema capitalistico globale è in enorme espansione (in termini di ambito e di intensità): da un lato esercita un fortissimo potere di attrazione grazie ai vantaggi che offre, dall’altro esige un prezzo altissimo dai paesi che tentano di sottrarsi alla sua influenza. Tali condizioni non dureranno per sempre ma, finché permangono, esse rappresentano una magnifica occasione per gettare le basi di una società globale aperta. Con il passare del tempo le carenze del sistema si faranno sentire, e il boom potrebbe trasformarsi in crisi. Ma il crollo incombente si può evitare, riconoscendo in tempo i punti deboli. Ciò che è imperfetto si può migliorare, e la sopravvivenza del sistema capitalistico globale richiede una società che cerchi senza tregua di correggere i propri difetti: una società globale aperta.

George Soros è investitore e filantropo, presidente dell’Open Society Institute, una fondazione morale internazionale con sede a New York.




Mentre le frontiere politiche sbiadiscono, riemergono le differenze culturali.
di Ronald M. Bosrock
Star Tribune
26 aprile 1999


Lo stato-nazione, con i suoi confini precisamente delimitati, è stata l’entità politica dominante per gran parte del ventesimo secolo. Quasi tutti tali confini dividevano le persone lungo linee ideologiche e politiche, servendo da elemento di chiusura a volte verso l’interno, altre verso l’esterno. Allo scoppiare di gravi conflitti militari o politici, i solitamente i belligeranti tentavano di modificare i confini politici o soggiogare un sistema ideologico/politico. La sovranità dello stato-nazione era più importante dei gruppi culturali presenti suo interno. A partire dalla caduta del muro di Berlino nel 1989 e dal conseguente crollo dell’Unione Sovietica, tuttavia, la globalizzazione dell’economia mondiale ha diminuito l’importanza dei confini politici. Allo scopo di favorire una maggiore interazione economica e politica sono sorte alleanze strategiche che sarebbero state impensabili durante la Guerra Fredda.

La globalizzazione, pur avendo molti lati positivi, ha permesso a differenze culturali che spesso erano nascoste appena sotto la superficie di riaffiorare prepotentemente. Differenze culturali che un tempo erano soffocate o che svolgevano un ruolo secondario all’interno degli obiettivi geopolitici di un governo, ora hanno la possibilità di assumere un ruolo di primaria importanza nella vita delle persone. Da questo possono derivare lezioni assai dure per i leader economici e politici. La Yugoslavia ne è un tragico esempio. Nell’autunno del 1992 trascorsi due settimane a Belgrado in viaggio d’affari. La Yugoslavia era ancora pressoché intatta, nonostante la dichiarazione di indipendenza delle repubbliche di Slovenia e Croazia. Durante quel soggiorno, nel corso di una delle manifestazioni quasi quotidiane, incontri una giovane coppia sposata. Entrambi erano professionisti colti, e mi dissero che per tutta la vita si erano sentiti iugoslavi, nonostante lei fosse croata e lui serbo. La donna mi disse: “la questione dell’appartenenza etnica è tornata a galla da poco. Da quando è avvenuta la rottura, durante le visite ai miei in Croazia mio marito è trattato con meno rispetto perché è serbo.” Oggi mi chiedo cosa sarà stato di loro. Il loro matrimonio sarà sopravvissuto alle recrudescenze etniche? Sopravviveranno alle ostilità odierne?

Un mondo più complicato

Sotto molti aspetti, la globalizzazione ha reso il mondo un luogo più complicato, in particolare nell’Europa Orientale. L’Unione Sovietica fu un concentrato di potere politico ed ideologico tra i più formidabili che siano mai esistiti. Non solo aveva di suo confini solidi, ma rafforzò i confini degli stati affiliati. Allo stesso tempo, l’Unione Sovietica era costituita da quindici repubbliche culturalmente molto diverse fra loro – dagli stati baltici (Lituania, Lettonia ed Estonia), fino alle repubbliche centro-asiatiche come Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan, eppure nel mondo si parlava di loro semplicemente come dei “russi”.

La Yugoslavia nacque dopo la Prima guerra mondiale come baluardo contro la Germania, ma rappresentava anche un’entità multiculturale, composta di tre religioni e sei gruppi nazionali con storie diverse, spesso in conflitto l’uno contro l’altro. La federazione rimase intatta fino al successivo conflitto mondiale, in virtù dei vantaggi difensivi offerti dall’unità. In seguito alla dichiarazione di guerra, tuttavia, il paese si divise tra la fazione favorevole all’Asse e quella pro Alleati. Dopo la Seconda guerra mondiale, il paese fu riunificato sotto l’egida del presidente comunista Tito. Finché Tito fu al potere e la sfera d’influenza sovietica rimase intatta, la Yugoslavia fu un paese unito: almeno due generazioni postbelliche crebbero sentendosi iugoslave, e tra loro anche la giovane coppia di Belgrado. Eppure, non appena crollò il potere che puntellava i confini politici, le differenze culturali emersero in superficie. La Slovenia dichiarò la propria indipendenza nel giugno 1991, la Croazia la seguì quattro mesi dopo. Quando le persone cominciarono a perdere la propria identità nazionale di iugoslavi, tornarono a galla le identità culturali, e i risultati di questo processo furono le campagne di pulizia etnica e, in ultimo, i bombardamenti NATO.

Il mantello del torero

Ma le cose non devono per forza andare a finire così. Alcuni paesi, pur dotati di confini politici ben definiti, hanno visto i propri governi rinunciare volontariamente a parte della sovranità in nome dei vantaggi derivanti da un’unione economica. L’Unione Europea è l’esempio più ovvio. Nonostante gli accordi pacifici e democratici alla base della sua creazione, alcuni paesi hanno sentito l’esigenza di riaffermare le proprie differenze culturali per distinguersi dall’entità sovranazionale.

Prima che la Spagna divenisse membro dell’Unione Europea, per esempio, il governo spagnolo era sul punto di abolire le corride: questo sport era ricco di storia e di suggestioni, ma aveva attirato molte critiche per la sua violenza. Dopo l’ingresso nella UE, invece, la Spagna ha rinunciato a qualsiasi progetto di abolizione di questo sport, rilanciando anzi le corride come un tratto fondamentale della cultura spagnola. In Spagna e nel mondo intero una nuova generazione di toreri sta rivaleggiando in popolarità con le star della musica rock, quasi che la Spagna abbia fatto il suo ingresso nell’arena economica mondiale brandendo un mantello da torero.

Sarà la globalizzazione culturale a stabilire le modalità dei nostri rapporti reciproci nel ventunesimo secolo. Il professor Samuel Huntington, dell’Università di Harvard, afferma che continuando la globalizzazione ad evolversi e l’importanza dei confini politici a diminuire, le persone tenderanno sempre più ad identificarsi con fattori culturali quali i gruppi etnici o l’appartenenza religiosa. Saranno queste differenze a formare la base dei futuri confronti e scontri. Ancora una volta, gli attuali avvenimenti iugoslavi ne sono una dolorosa dimostrazione.

La globalizzazione nel ventunesimo secolo non richiederà solo la comprensione dei rapporti culturali esistenti tra diversi gruppi regionali, ma altresì la comprensione e il riconoscimento dei modi in cui le entità culturali di una parte del mondo entrano in relazione con culture simili ma appartenenti a località geografiche diverse. Nel libro intitolato Tribes, Joel Kotkin discute le modalità secondo cui elementi culturali come razza e religione determinano il successo all’interno della new economy globalizzata. Kotkin evidenzia come i nuovi mezzi di comunicazione – fax, posta elettronica e moderni mezzi di trasporto – abbiano permesso ai membri di una cultura un tempo dispersa di riunirsi e ristabilire legami familiari e tribali. L’uguaglianza culturale funziona da legame tra le persone meglio delle affiliazioni politiche, le quali possono mutare con il tempo.

Ne consegue che è in corso, a livello mondiale, una riunificazione culturale. Dall’altra parte del mondo i cinesi sono già i più grossi investitori della Repubblica Popolare Cinese, e i programmatori informatici indiani sono tornati in patria e stanno trasformando Bangalore in un competitor mondiale nel campo del software. Questo processo acuirà la sensibilità dei membri di un particolare gruppo culturale di fronte alle difficoltà di altri membri del medesimo gruppo in altre parti del mondo. I musulmani di Indonesia o Malesia, per esempio, potrebbero sentirsi solidali nei confronti dei musulmani kosovari e bosniaci. L’affermarsi della cultura come principale fonte di identità fa sì che governi e aziende debbano sapere di più sulle culture del mondo, e sul modo in cui queste potranno influire sulla politica e la pianificazione. Una qualche conoscenza sui diversi paesi non è più una cosa “interessante”, quanto piuttosto un sapere essenziale, se non si vuole che la carenza conoscitiva mini una buona occasione di affari o induca in errore circa le reazioni di un particolare leader di fronte a una minaccia di uso della forza.

La cultura sarà fondamentale

Per gran parte del ventesimo secolo i leader politici ed economici del mondo hanno avuto a che fare con un numero limitato di capitali, come ad esempio Mosca, Pechino, o Washington. Nel ventunesimo secolo dovremo avere a che fare con Kiev, Minsk, Zagabria ecc. La sfida che si presenta ai governi e al mondo dell’economia in questo secolo è quella di capire la nuova importanza delle differenze culturali a livello mondiale, e di rendere tali differenze parte integrante della propria pianificazione prima che diventino un problema. Tale sfida graverà in particolar modo sugli Stai Uniti, in quanto forza economica e militare dominante.

I vertici delle aziende e delle istituzioni culturali statunitensi dovranno con urgenza preparare i propri studenti e dipendenti al ruolo rilevante della cultura. A livello interno sappiamo già qualcosa di comprensione internazionale e del ruolo che essa svolge nella nostra vita quotidiana. L’immigrazione ha arricchito di nuove culture il nostro miscuglio originario, aggiungendo elementi provenienti dall’Africa centrale e occidentale, dai Balcani, dal subcontinente indiano e da altre aree dell’Asia. Il primo avamposto di quest’ondata è già qui. Abbiamo una solida conoscenza di queste culture, tale da garantire una transizione morbida, oppure a tutti noi gioverebbero un po’ di compiti a casa?

Ronald M. Bosrock è fondatore e direttore generale dell’ Institute for Global Expansion di Minneapolis – un gruppo accademico e imprenditoriale internazionale di consulenza e ricerca, facente capo alla St. Mary’s University del Minnesota.




Slavoj Žižek

“Quale rapporto sussiste in quest’epoca di capitalismo globale tra l’universo del capitale e lo stato nazionale? Forse si potrebbe definire meglio questo rapporto come una “autocolonizzazione”: nell’attività diretta del capitale multinazionale non abbiamo più a che fare con standard opposti tra metropoli e paesi colonizzati, l’azienda globale in qualche modo recide il cordone ombelicale con la propria nazione d’origine e tratta il proprio paese come mera sfera d’azione, che bisogna colonizzare. Sta proprio qui il motivo della collera dei patrioti orientati verso la destra populista, da le Pene da Buchanan: il fatto è che le nuove multinazionali si comportano con i propri cittadini francesi o americani, esattamente allo stesso modo come con gli abitanti del Messico, del Brasile oppure di Taiwan. Però in questa svolta autoreferenziale non esiste una qualche giustizia poetica? L’odierno capitalismo globale è nuovamente una specie di “negazione della negazione”, dopo il periodo del capitalismo nazionale e la sua fase internazionale/coloniale. All’inizio (ovviamente in senso ideale) si registra un capitalismo circoscritto ai confini nazionali del paese, con un mercato internazionale (gli interscambi tra gli stati nazionali sovrani); a questa fase fa seguito il rapporto di colonizzazione, nel quale la nazione colonizzatrice subordina e (economicamente, politicamente, culturalmente) sfrutta il paese colonizzato; l’ultimo atto di questo processo è invece il paradosso della colonizzazione, dove esistono delle vere e proprie colonie e non più i paesi colonizzatori – la forza di colonizzare non sta più nelle mani degli stati nazionali, bensì direttamente nella mani delle aziende globali. A lungo termine non solo porteremo le magliette della Repubblica di Banana, ma anche vivremo nella Repubblica di Banana.
Naturalmente il multiculturalismo è la forma ideale dell’ideologia del capitalismo globale, un atteggiamento, che da una vuota posizione globale discute su qualsiasi cultura locale, alla stessa stregua come un colonizzatore tratta un popolo colonizzato – come “indigeni”, la cui natura è necessario studiare con attenzione e “rispettare”. In altre parole, il rapporto tra il colonialismo imperialista tradizionale e la globale autocolonizzazione capitalistica, è lo stesso del rapporto tra l’imperialismo culturale occidentale ed il multiculturalismo: così come il capitalismo globale include il paradosso della colonizzazione senza gli stati nazioni colonizzati, così il multiculturalismo fornisce una protezione di eurocentrica distanza e/oppure il rispetto delle culture locali, senza radici nella propria particolare cultura. Il multiculturalismo è evidentemente una forma invertita ed inconfessata di razzismo “a distanza”: “rispetta” l’identità dell’altro, concependo l’altro come un “autentica” comunità chiusa verso cui proprio lui, il multiculturalista, mantiene una distanza resa possibile dalla propria posizione universale privilegiata. In altre parole il multiculturalismo è una forma di razzismo che svuota la propria posizione da ogni contenuto positivo (il multiculturalista non è un aperto razzista, non oppone all’altro i valori particolari della propria cultura), ma nondimeno conserva questa posizione come essenza vuota e privilegiata dell’universalità, da cui si possono apprezzare adeguatamente le altre specifiche culture: il rispetto del multiculturalismo per la specificità dell’altro è la forma più efficace per riaffermare la propria superiorità.
Ciò che ci porta a concludere che la neutralità del multiculiralismo sia una menzogna deriva veramente dal fatto che la sua posizione silenziosamente privilegia i contenuti eurocentrici? Questo un modo di pensare giusto, ma che deriva da una ragione sbagliata. I retroscena e le radici della cultura particolare, che sostiene la posizione universale del multiculturalismo, non sono la “verità” di questa posizione, celata dietro la maschera dell’universalità (“il multiculturalismo universale è in realtà eurocentrico …”), bensì all’opposto semplice emblema delle radici particolari e fantasmagorico paravento, che cela il fatto la realtà che il soggetto è già completamente “senza radici”, e che la sua vera posizione è il vuoto dell’universalità.

Le”diversità” di oggi (i senza casa, la gente nei ghetti, i disoccupati…) sono sintomi del sistema universale tardo capitalista, che ci ammonisce con sempre maggior frequenza, sull’agire della logica immanente del tardo capitalismo: la vera utopia del capitalismo consiste nella possibilità che con misure adeguate (t.i. “l’atto affermativo” per i liberali progressisti; il ritorno ad occuparsi di se stessi e dei valori familiari per i conservatori) queste “eccezioni” – vengano a lungo termine eliminare, almeno in linea di principio. Non esiste un’utopia analoga nel concetto “della coalizione dell’arcobaleno”; nell’idea, che in un utopico futuro tutti gli aneliti progressisti ( lotta per i diritti dei gay e delle lesbiche; lotta per i diritti delle minoranze etniche e religiose; battaglie ecologiche; lotte femministe;ecc.) saranno tutti riuniti dalla comune “catena dell’equivalenza”? Ancora una volta, l’essenza fallisce per ragioni strutturali; si tratta semplicemente, che per la complessità empirica della posizione di tutte le particolari battaglie “progressiste” non si riuniranno mai, mostreranno sempre catene d’equivalenza “sbagliate” (per esempio, le continue lotte per l’identità etnico afro americana e le ideologie omofoniche patriarcali) il manifestarsi di persuasioni “sbagliate” è basata sul solo principio, che struttura l’odierna politica “progressista” di ripristino delle “catene d’equivalenza”: la sola sfera delle particolari lotte di massa, con i loro incessanti spostamenti e concentrazioni, mantiene la “repressione” dei ruoli chiave della battaglia economica – la politica della sinistra delle “catene d’equivalenza” tra le diverse lotte di massa è strettamente correlata alla silenziosa omissione di un’analisi del capitalismo, come sistema d’economia globale e l’accettazione dei rapporti economici capitalisti come una cornice inquestionabile.”

(estratti da Slavoj Žižek: Multiculturalismo o la logica culturale del capitalismo multinazionale, in: Razpol 10 – glasilo Freudovskega polja, Ljubljana 1997.)




Intervista ad Umberto Galimberti

A. Fonda: Oggi si parla di globalizzazione soprattutto in riferimento all’organizzazione ed il potenziamento della ricchezza. A questo processo ha contribuito in modo decisivo l’esito del conflitto secolare tra capitalismo e comunismo, ossia tra l’organizzazione capitalistica e l’organizzazione marxista della tecnica. Un processo iniziato molto prima, ma di cui si conoscevano già gli esiti. Quali sono le conseguenze di questo decennale cambiamento sulla società?

U. Galimberti: Il fatto è che la globalizzazione è un evento capitalistico, solo capitalistico che ha in mente il primato della merce sull’uomo. Cioè, il trionfo del capitalismo ha significato davvero la fine del pensiero marxista. Che cosa diceva Marx, che l’uomo deve essere considerato come fine e la merce come mezzo, ripetendo pari pari la proposizione di Kant. invece il capitalismo è esattamente il contrario, per cui oggi assistiamo che le merci sono più libere di muoversi nel mondo di quanto lo siano gli uomini. E soprattutto che gli uomini sono diventati effettivamente funzionari delle merci. Io non capisco perché si è messo in sordina Marx dopo il crollo del muro di Berlino, quando la globalizzazione è l’esatta esecuzione della previsione di Marx, che affermava per l’appunto il primato della merce sull’uomo. Solo che prima il primato della merce era limitato all’Europa dove si producevano le merci. Oggi invece tutto il mondo è diventato sostanzialmente merce e gli uomini possono sussistere ed avere diritto non di dignità di vita, ma solo in quanto funzionari delle merci.

A.F.:Isolamento delle parti e specializzazione, queste sembrano essere le caratteristiche della nostra epoca, in che modo stanno incidendo sull’individuo e suo rapportarsi con gli altri.

U.G. Dunque la specializzazione è una richiesta della tecnica, perché la tecnica non interessa l’uomo, ma interessa l’uomo specializzato, anzi interessa dell’uomo la sua specializzazione. Perché la tecnica è un apparato che per funzionare ha bisogno che ognuno svolga una determinata mansione, non necessariamente difficile o complicata, anzi meglio se semplice, perché alla tecnica interessa l’efficienza come tutti sanno, ma soprattutto la sostituibilità. L’anello debole degli apparati tecnici sono appunto gli uomini, i quali vengono interpellati in quanto competenti, svolgenti in una specialità. Questo determina uno spostamento dell’identità. Nel senso che la mia identità individuale non è più data da ciò che sono, ma da ciò che determinatamente faccio. Anche quando noi ci dovessimo trovare ad una riunione e la gente ci dovesse dire il loro nome, questo nome non ci dice niente finché non ci dicono la loro funzione, specialistica e a partire da quella loro funzione noi cominciamo ad avare una topografia dei radunati. Ora, ciò vuol dire che la funzione oggi ha il primato sull’identità. Questo è un effetto della tecnica divenuta globale. Io conto per la mia funzione e conto molto meno per la mia identità. Anzi, la mia identità in qualche modo la devo tenere ricoverata, al massimo mi è concesso il fine settimana per esprimerla, ma gli altri giorni della settimana io devo muovermi come funzionario dell’apparato, quindi devo usare il linguaggio dell’apparato, che se sono in banca non posso chiedere come sta tua zia, ma devo parlare il loro linguaggio ed acconciarmi come vuole l’apparato. E quindi non possiamo pensare che l’identità resti immutata se si allena cinque giorni a settimana ad esporre solo un aspetto specializzato di se medesimo.

A.F: La scienza e la tecnica possono muoversi liberamente, senza limiti!? Perché la tecnica è ormai l’orizzonte e la fede dell’uomo contemporaneo?

U.G.: Perché la tecnica è la condizione universale per la realizzazione di qualsiasi obiettivo. Questo vuol dire che la tecnica oggi non è più un mezzo, ma è un fine. Nel senso che io per realizzare qualsiasi fine ho bisogno dell’apparato tecnico, la prima cosa che desidero è realizzare questo apparato tecnico. Farò un esempio, quando l’apparato tecnico sovietico era più forte di quello americano, anni 1960, nessuno parlava del crollo del comunismo. Il comunismo è crollato, quando l’apparato tecnico sovietico non era più in grado di realizzare il fine del comunismo, che era la sua mondializzazione e quindi si è rinunciato al fine per insufficienza tecnica. Il comunismo è crollato per insufficienza tecnica, non per una revisione ideologica. Questo sta a dire, allora, che la tecnica, essendo la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, non è più un mezzo, ma il primo scopo per realizzare il quale si subordinano la realizzazione degli altri scopi.

A.F.:Il cristianesimo non è forse una delle forme più antiche di globalizzazione prodotte dall’occidente?

U.G.:No, perché altrimenti la stesso cosa la potremmo dire del Buddismo, dell’islamismo. Il cristianesimo è la religione dell’occidente e che lo ha unificato, perché ha dato forma all’occidente. E la forma che il cristianesimo gli dato è una forma laica, perché il cristianesimo è l’unica religione che contiene in sé il principio dell’ateismo. A differenza delle altre religioni dove Dio è Dio e l’uomo è l’uomo, nel cristianesimo Dio si fa uomo, che equivale ad incominciare a pensare l’uomo come creatore di sé stesso, autore di sé medesimo. In quanto contenente il principio dell’ateismo, il cristianesimo ha determinato il volto dell’Occidente, da lui educato al cristianesimo, come volto sostanzialmente laico e ateo. Ma questo perché nel cristianesimo c’è il principio della negazione della trascendenza di Dio.

A.F: E il nostro corpo, così legato ai suoi limiti?

U.G.:Il nostro corpo è ridotto ormai ad un manichino, nel senso che il nostro corpo è il sostegno delle merci. E’ un corpo per l’abbigliamento, è un corpo per la bellezza, è un corpo per la sessualità, un corpo anche per la malattia. Il corpo sono il grande sostegno dei business medici, per esempio. Il corpo non è più il soggetto dell’esistenza, ma è il supporto di altre soggettività che sono gli apparati tecnici. Apparato della moda, apparato della cosmesi, apparato della salute. Apparato persino della spiritualità, nel senso che anche la mortificazione dei corpi produce quei meriti sufficienti per organizzare una salvezza, cioè, il passaggio è che il corpo non è più il soggetto attraverso cui io sono al mondo, ma è l’oggetto attraverso cui gli apparati scientifici esplicitano il loro potere.

A.F:Identità, nazionalità, tradizioni, che ruolo giocano ancora questi valori?

U.G.:Dunque, l’identità, nazionalità e territorialità, ormai con la globalizzazione spariscono. Nel senso che dovremo incominciare a pensare ad un uomo nuovo che non è più caratterizzato dal territorio e dalla legge a difesa del territorio . Finisce l’uomo di carattere e il territorio di legge e incomincia un tipo di uomo scarsamente connotato dall’identità razziale e regionale, etnica, nonostante gli urli di Bossi o di Haider, non è interessante, questi sono i cascami della storia. Qui c’è invece adesso un uomo generico, un uomo che non è più individuato dalla sua appartenenza, ma è individuato dalla sua rappresentanza economico sociale. E quindi è un uomo generico che può essere indifferentemente a New York oppure nel Congo, purché rappresenti un apparato socio economico da cui lui riceverà leggibilità. La globalizzazione ha naturalmente come suo altro riscontro l’emigrazione. Nel senso che là dove tutto è aperto, i flussi migratori si sposteranno dalle zone di miseria alle zone di benessere, finché queste zone saranno di benessere e questo crea un altro tipo d’uomo che ribadisce che non esiste più un uomo del territorio, ma esiste quello che io chiamo l’uomo viandante, che si alloggia provvisoriamente qua, poi un po’ là, risolvendo i problemi di volta in volta, senza un’etica che abbia dei fondamenti da cui dedurre delle pratiche di convivenza, ma un uomo sempre più nomade, perché il territorio, l’identità ed il carattere non funzionano più.
A.F.:Nonostante il processo di globalizzazione, l’apertura verso paesi che non hanno avuto un’evoluzione occidentale viene vista ancora da questi con una curiosità analoga a quella dell’esploratore dell’ottocento a contatto con i primi popoli stranieri, ovvero da colonizzatore. Ciò vale anche per i paesi dell’Europa dell’est e per tutti coloro che non fanno parte dei cosiddetti paesi industrializzati. Questo perché, è un luogo comune credere che il modulo occidentale sia l’unico e il migliore. Come smascherare questa illusione?

U.G: Il modulo occidentale non è il migliore, è il più efficiente, più efficace e il più consono alla forma del nostro tempo che è forma tecnologica. E allora evidente che tutti i popoli che vogliono emanciparsi e devono emanciparsi, poiché non hanno più un territorio con la loro simbolica, con le loro condizioni di esistenza, ma sono semplicemente massa spersa in terre anonime, perché questo è il mondo al fuori dell’occidente. Lande anonime con masse sperse. E’ allora evidente che per strutturarsi e per trovare un’appartenenza devono entrare nel giro tecnico economico che l’occidente propone come forma attuale del mondo. Per cui avremo sempre di più un passaggio di questi soggetti di terre sparse e anonime, perché non ci sono più tradizioni, culture, simboli. Basta guadare l’Africa. Sono più le tribù che i loro simboli. Quindi con le loro condizioni di esistenza c’è una massa vagante, belligerante, la quale può trovare un’identità solo a piccole individualità che riescono ad assimilarsi a questo modulo culturale. Modulo culturale che prevede solo come categorie egemoni efficienza, funzionalità e profitto.


A.F.: Nella questione globalizzazione non è possibile rilevare qualche cosa di positivo dal punto di vista della filosofia? Oppure quest’idea di un mondo unito governato da una pace perenne, è solo un’idea che dall’illuminismo, dalle unificazioni nazionali, dal risorgimento all’Europa Unita, nasconde il gioco di un’omogenizzazione sotto il dominio della tecnica?

U.G.: Si l’omogenizzazione è l’inevitabile, nel senso che noi ci troviamo in una situazione di questo genere, che la tecnica è la forza più grande che oggi circoli nel mondo e anche la più fragile. Però la tecnica è un fenomeno che investe solo un quinto dell’umanità. Poi ci sono quattro quinti dell’umanità non tecnologica. Ora i problemi sono due, o la tecnica che è oggi la forza più grande riesce a diffondersi e ad imporsi e a ridurre a suoi funzionari gli altri quattro miliardi di abitanti. Oppure i quattro miliardi invadono il mondo occidentale gradatamente, come hanno fatto i romani con i barbari, e invece di assimilarsi rifondono un altro tipo di umanità a noi ignota. L’unica cosa che posso dire è che l’Occidente, la sua cultura è definitivamente defunta, non perché arrivano i barbari, ma perché è arrivata la tecnica. La tecnica ha prodotto un tipo d’uomo che dispone di un solo pensiero, che è il pensiero che calcola, non pensiero che pensa. I risultati già si vedono, come la riduzione dalla scuola, non più nella forma della produzione del pensiero, della formazione individuale, ma nella forma della competenza tecnica. E quindi bastano due generazioni educate alla competenza tecnica, che io ho destrutturato l’umanità, come l’abbiamo conosciuta, il patrimonio culturale europeo come l’abbiamo conosciuto. L’Europa per me è radicalmente finita nel giro di trent’anni. Prima per la tecnica e secondo per l’emigrazione. La quale emigrazione o si inserisce nella tecnica o fonda un altro tipo di umanità.

A.F.: Se l’arte è un modo per cogliere aspetti fondamentali della realtà umana e del mondo, in che modo il fenomeno globalizzazione inciderà, in futuro, sulla rappresentazione artistica?

U.G.:Negativamente, nel senso che l’arte ha sempre un vissuto dell’animo e l’animo a sua volta è alimentata a sua volta da un ambiente familiare o da un ambiente estraneo. Ci vuole questa dimensione per l’arte, che l’animo oscilli tra il familiare e il protetto e l’inquietante e l’esposto. L’arte è questa grande oscillazione che gioca su queste categorie antropologiche molto forti, primordiali da cui è nato il rapporto di appartenenza, amicizia e inimicizia. L’arte gioca qui. Nella misura in cui il mondo diventa omogeneo, non vedo più di che cosa ci si possa incantare. A sua volta l’arte non può essere l’antitesi della tecnica, ma può essere solamente una nicchia che la tecnica concede al suo interno, così come ornamento dell’apparato tecnologico. Ma non come produzione poetica e tanto meno come creazione linguistica.

A.F.:E se invece dovessimo confrontarci con un modo diverso di affrontare l’arte? Una nuova forma d’arte?

U.G.:E allora in questo caso diventa molto tecnica e allora se diventa molto tecnica smette di essere arte. Cioè, esiste la grande tentazione dell’arte di assimilarsi alla signora di casa che è la tecnica. Per quel tanto che si assimila alla signora di casa smette di essere arte e non diventerà mai signora di casa, perché la tecnica sa fare la signora di casa. Per quel tanto invece che si dissocia resta nicchia. Nicchia pregevole, perché essere nicchia non è certo negativo, non è però il discorso attorno a cui si organizza il mondo. Ecco diventa semplicemente l’obbiezione del mondo tecnologico.




Francesco Antinucci
La barriera più alta è la lingua il computer ce la farà superare
Il maggiore ostacolo all’integrazione è stato sempre costituito dalle differenze linguistiche che limitano il numero delle persone in grado di accedere alle conoscenze e alle informazioni. Ma le tecnologie basate sul computer, visuali, interattive e sostanzialmente “artigianali” ci permetteranno di by-passare, per la prima volta, l’argine biologico della diversità dei linguaggi.
1.
Cosa si intenda per “globalizzazione” non è sempre chiaro, soprattutto in relazione alla comprensione di cosa sta accadendo oggi nel mondo. Da una parte, infatti, il termine appare troppo vago: non è certo la prima volta nella storia umana che assistiamo a fenomeni comodamente denotabili da esso; ricordo, ad esempio, che una ventina d’anni fa si parlava di “planetarizzazione” e, ancor prima, di “mondializzazione”. Si potrebbe pensare che si tratti di un unico fenomeno che dura ormai dal dopoguerra (anche se mi sembra che quantomeno le connotazioni di questi termini fossero alquanto diverse). Tuttavia si può anche sgombrare il campo da ogni ambiguità andando a riaprire un manuale di storia antica: il percorso di formazione e sviluppo dell’Impero romano dal I al IV secolo non rappresenta forse un gigantesco fenomeno di globalizzazione? (E forse anche con maggiore pertinenza rispetto al fenomeno moderno dal punto di vista della “amalgamazione” delle culture e delle etnie: non c’è tanta differenza tra la comparsa di un piccolo Colosseo in ogni cittadina dell’impero e quella odierna di un McDonald’s). E, analogamente, spostandoci in questo caso sul terreno economico, come considerare la grande apertura ed espansione dei mercati dal XVIII al XIX secolo? E la rapidissima, in termini storici, diffusione tecnologico-industriale (dalla Manica agli Urali) della fine del XIX secolo (che, non a caso, darà origine alla prima guerra “mondiale”)?
Non è quindi chiaro, a un esame un po’ più che superficiale, cosa caratterizzi specificamente il fenomeno odierno. Forse nulla, si potrebbe argomentare: nulla dal punto di vista qualitativo. Si tratta degli stessi fenomeni semplicemente su scala più ampia (anche se, va ricordato, tutt’altro che universale: l’Africa non è una sacca marginale né quantitativamente né qualitativamente), o forse, più crucialmente, che avvengono tutti insieme in ogni ambito: economico, tecnologico, culturale, ecc. E dunque con risultati imponenti (ad esempio, dal punto di vista dell’uniformazione), ma niente che non si sia già visto, sia in termini di processo sia di risultato, almeno in piccolo o in nuce.
Ebbene, vorrei provare a sostenere che invece il fenomeno odierno presenta qualcosa di altamente specifico che lo rende diverso da qualunque fenomeno simile del passato, dal momento che va a incrociarsi con un cambiamento profondo dell’operare cognitivo umano, cioè dei modi coi quali acquisiamo, elaboriamo e scambiamo conoscenze, che non potrà non avere enormi conseguenze sulle modalità fondamentali di interazione.
2.
La chiave di volta di tutto ciò è la natura della tecnologia che sta alla base dei processi in corso. Naturalmente, tutti i grandi fenomeni di questo tipo hanno sempre avuto una tecnologia che li supportava (tecnologie di costruzione, tecnologie di trasporto, tecnologie di guerra, ecc), ma la loro caratteristica – con una sola grande eccezione che esamineremo tra poco – è quella di essere state, fino a ora, “tecnologie del corpo”. Possiamo concepire in generale le tecnologie come degli artefatti che supportano e amplificano le capacità naturali umane. Quindi, quando dico “tecnologie del corpo” intendo quelle tecnologie che supportano e amplificano le capacità del corpo umano: così, ad esempio, la capacità di spostarsi nello spazio, oppure quella di compiere lavoro fisico. Si tratta, appunto, delle tecnologie “energetiche” che hanno dominato la storia dell’umanità dalle origini fino a questo secolo.
Dicevo, però, con un’importante eccezione: quella della stampa. La stampa – e la sua più antica predecessora, la scrittura – sono invece “tecnologie della mente”. Sono, infatti, tecnologie che supportano e amplificano capacità mentali dell’uomo: in questo caso la memoria, la capacità di ricordare, e la comunicazione. Così come per le tecnologie energetiche, l’impatto e i risultati di queste tecnologie sulla società umana sono stati enormi: nessuna società minimamente complessa si potrebbe reggere senza mezzi per registrare dati ben al di là della labilità della naturale memoria umana; il potere, poi, di amplificatore e moltiplicatore della comunicazione, con tutte le conseguenze che ne derivano, dovuto alla stampa è ancora sotto i nostri occhi (lo è letteralmente mentre state leggendo, appunto, questo articolo “a stampa”). Il secolo appena terminato – e forse questo è ciò che maggiormente lo distingue da quello precedente – ha incominciato invece a sviluppare un’intera schiera di tecnologie della mente: telefono, cinema, radio, televisione, per culminare con la più potente e, soprattutto, la più onnicomprensiva di esse, il computer.
3.
Torniamo ora ai processi di globalizzazione. Qualunque sia la loro natura e la loro specifica forza portante, essi devono fare i conti con una resistenza, un ostacolo intrinseco costitutivo della natura umana, che è quasi paradossale. Nell’uomo il mezzo di comunicazione, e dunque il veicolo principale degli scambi di qualunque natura e delle relazioni sociali, è il linguaggio naturale: è esso che, a differenza di quanto accade negli altri animali, permette, proprio con la ricchezza illimitata dello scambio informativo, di conoscenze, integrazioni ricche, vaste e complesse sul piano comportamentale. Al tempo stesso, il linguaggio, per sue caratteristiche intrinseche, è soggetto a continua mutazione e differenziazione, dando così luogo non soltanto a una molteplicità di lingue diverse, ma anche a un continuo cambiamento e frazionamento delle lingue esistenti. Il risultato di questo processo è quello ben noto della mutua incomprensibilità delle lingue parlate, anche quando queste derivino storicamente da una medesima lingua: la cosiddetta babele delle lingue.
Non vi è dubbio che la differenza linguistica rappresenti un forte ostacolo a qua lunque processo di integrazione globale, tanto più quanto più esteso e radicale è questo processo. Tra l’altro, come sappiamo bene, l’ostacolo è di duplice natura. Una, “tecnica”: imparare a parlare un’altra lingua è un compito difficile, lungo e faticoso e, inoltre, ben difficilmente si raggiunge una padronanza adeguata di una lingua straniera se non si è intrapreso questo apprendimento da piccoli o non si è trascorso un lungo tempo nell’ambiente in cui la lingua è comunemente usata. C’è poi un’ulteriore difficoltà: la lingua non è un fattore “neutro”, solo tecnico, di comunicazione; a essa tendono a essere associati complessi di valori che rendono ideologicamente difficile un suo abbandono in favore di un’altra lingua (non a caso si parla di “imperialismo linguistico”). Anzi, bisogna constatare che lo sviluppo e la diffusione globale dei valori democratici moderni tende paradossalmente a portare con sé un ulteriore e più spinto frazionamento linguistico, in quanto la lingua, nella forma di una lingua propria ed esclusiva di una certa comunità, tende a essere scelta quale simbolo essenziale di valori democratici quali, ad esempio, le autonomie locali, col risultato di riportare ancor più indietro che allo stadio di partenza le condizioni di integrazione globale.
Del resto anche l’esperienza storica antica e recente mostra che il fattore linguistico ha sempre agito, prima o poi, come un potente freno a questi processi, nell’antico Impero romano così come nei moderni Stati Uniti d’America, ormai alle prese da circa un ventennio – dopo quasi duecento anni di integrazione indiscussa sotto l’egida della lingua inglese – con seri problemi istituzionali in questo campo (confrontare la cosiddetta “English only language measure”).
Se questo è stato ed è uno degli ostacoli maggiori ai processi di globalizzazione, bisogna dire che su questo punto nulla ha potuto fare la tecnologia fino a oggi, anzi. Paradossalmente, infatti, le uniche tecnologie della mente sviluppate fino a questo secolo – scrittura, stampa, ma anche telefono, radio – sono tecnologie che operano proprio o tramite il linguaggio o sul linguaggio stesso: così facendo, come abbiamo detto, ne amplificano il potere e dunque anche quello di resistenza (ad esempio, se la lingua, solo parlata, di una comunità diventa anche scritta e stampata). Finanche la tecnologia di scambio di conoscenze più avanzata oggi esistente, la rete Internet, opera ancora fondamentalmente tramite il linguaggio.
4.
D’altra parte è pur vero che l’operare cognitivo umano relativo alla acquisizione, elaborazione e scambio delle conoscenze nelle società avanzate è basato, da almeno quattro secoli, quasi esclusivamente sul linguaggio. Questo operare è chiamato tecnicamente “simbolico-ricostruttivo”: si leggono dei simboli (linguistici), si interpretano per decodificarne il significato, e si ricostruiscono nella mente gli “oggetti” cui tali significati fanno riferimento. Se il processo va correttamente in porto, acquisiamo, tramite questo lavorio mentale, la conoscenza che un emittente ha precedentemente incorporato attraverso un processo analogo e inverso. Il testo scritto è la forma mediatrice universale di questi processi: per questo motivo tutta la nostra conoscenza è depositata in essi.
La enorme diffusione di questa modalità di acquisizione delle conoscenze ci ha fatto dimenticare che questo non è l’unico modo in cui apprendiamo, e non è neanche il primo, né in senso genetico, né in senso storico. Ne esiste un altro, che si chiama “percettivo-motorio”: percepisco una situazione reale, provo a modificarla tramite la mia azione, constato il risultato di questo intervento. La reazione alla mia azione (che mi è intrinsecamente nota) mi fa conoscere aspetti di tale situazione. Ripetendo questi cicli di percezione-azione-percezione basandomi sui risultati che ottengo ogni volta, sviluppo conoscenze sempre più articolate e accurate. Si tratta, in sostanza, del familiare processo di apprendere “facendo esperienza”: quando avete davanti un congegno o un dispositivo e non sapete come funziona, adottate spesso questo procedimento, e, se va in porto, “imparate”, appunto, a usarlo. Questo è, tra l’altro, il procedimento con il quale il bambino piccolo, che non ha ancora né linguaggio né apparato simbolico, impara quasi tutto sul mondo che lo circonda.
Non si tratta di una modalità secondaria di apprendimento: anzi, semmai il contrario; proprio il caso del bambino piccolo ne mostra la straordinaria potenza. Così come la mostra un altro fenomeno: il fatto che tutti, se ci viene data scelta, preferiamo apprendere in questo modo, che, a differenza di quello simbolico-ricostruttivo, è più facile e senza sforzo (c’è qualcuno che ritiene più facile leggere e studiare le istruzioni?).
Il limite (non da poco) di questo modo di apprendere è che esso può applicarsi e funzionare solo se si è a diretto contatto percettivo-motorio, appunto, con la realtà da conoscere. Voi potete anche imparare a scrivere con il computer senza un manuale di istruzioni: mettendovi alla tastiera, osservando lo schermo e modificando continuamente la vostra azione in funzione dei risultati che osservate (sono anzi sicuro che la maggior parte delle persone che usa un computer per scrivere ha agito esattamente così, piuttosto che andandosi a leggere il manuale di Word); ma lo potete fare solo se avete fisicamente a disposizione il computer su cui compiere le vostre esperienze.
Questo limita fortemente quantomeno il numero delle persone che hanno accesso alla conoscenza, a paragone con la modalità simbolica, soprattutto quando quest’ultima è assistita da una tecnologia che riesce a mettere a disposizione di tutti l'”ambiente” di conoscenza: ancora oggi è più facile ed economico avere a disposizione un manuale piuttosto che un computer. E non vi è solo un limite di accesso: vi sono moltissime cose che non sono accessibili alla percezione e all’azione in linea di principio. Ad esempio, tutte le cose la cui scala di grandezza è o troppo grande o troppo piccola rispetto ai nostri organi sensori e motori: non si può vedere (né toccare) un sistema solare o un atomo. Ma queste cose si possono costruire nella mente ed è possibile applicare loro dei simboli per farvi riferimento. Di qui, il passaggio alla modalità simbolico-ricostruttiva e alla sua inevitabile base linguistica.
5.
Questa situazione, che ha dominato la scena negli ultimi quattro-cinque secoli, è però sul punto di cambiare drasticamente. Il computer è infatti una tecnologia della mente che si presta a supportare straordinariamente la modalità percettivo-motoria: il computer sarà per questa modalità ciò che la stampa è stata per la modalità simbolico-ricostruttiva. Farà, cioè, ciò che fanno tutte le tecnologie importanti: rimuoverà i limiti sia contingenti sia intriseci di questa modalità e ne amplificherà enormemente il raggio di azione.
Ciò avviene (o, meglio, avverrà, poiché siamo appena agli inizi di questo percorso) perché, da una parte, il computer è ormai in grado di elaborare immagini tridimensionali in tempo reale, e cioè di simulare la realtà percettiva umana, e dall’altra poiché è in grado di simulare il comportamento di questa realtà, artificialmente creata, in funzione dell’azione umana su di essa come se quest’azione fosse reale. In pratica, il computer è in grado di simulare, senza limiti e confini di sorta, in quanto lo crea artificialmente, un qualunque universo rendendolo disponibile all’attività percettivo-motoria umana. Questa enorme capacità simulativa – che è la vera essenza del computer – sta gradualmente cambiando, e sempre più lo farà, l’approccio all’apprendimento e alla elaborazione delle conoscenze. Lo si vede già, ad esempio, nei centri di ricerca scientifica delle più disparate discipline, dove il metodo simulativo è sempre più vastamente utilizzato rispetto ai metodi più tradizionali, come quello sperimentale. Via via esso filtrerà – soprattutto a mano a mano che le piattaforme tecnologiche più potenti (la simulazione visiva in tempo reale ha bisogno di molta potenza) saranno disponibili a basso costo – anche verso i settori dell’apprendimento e della trasmissione di conoscenze.
Questo cambiamento è destinato, dunque, ad avere un impatto enorme sul nostro problema, e cioè quello dell’ostacolo linguistico allo scambio e all’integrazione: l’operare percettivo-motorio non dipende infatti, come quello simbolico-ricostruttivo, dal linguaggio (o ne dipende in misura trascurabile rispetto a quest’ultimo) e dunque non è sensibile alle differenze di lingua. E’ quindi possibile che apprendimento e scambio di conoscenze superino la barriera costituita da queste differenze.
A tal punto, nella nostra realtà, le nozioni di apprendimento e scambio di conoscenze sono legate al linguaggio che questa mia affermazione può apparire paradossale: ma non è così. Conosciamo, infatti, ambienti di apprendimento e scambio di conoscenze dove questo avviene: o, più esattamente, dove questo avveniva. La tradizionale “bottega”, dove in passato si praticava tutto l’apprendimento, e non a caso scomparsa con l’avvento del predominio della stampa, era uno di questi ambienti. L’apprendimento era basato sul fare dell’allievo: fare che l’allievo apprendeva osservando ciò che il maestro faceva, provando a sua volta a fare, e venendo corretto, e cioè proprio attraverso quei circoli di percezione-azione-percezione. Naturalmente non è che nelle botteghe si praticasse il mutismo, ma è evidente che i canali fondamentali dell’apprendimento fossero la percezione e l’azione, mentre il linguaggio svolgeva un ruolo accessorio, di accompagnamento, magari di focalizzazione dell’attenzione osservativa o di sottolineatura. Del resto caratteristiche proprie di questo ambiente sono espressioni linguistiche come “si fa così” oppure “te lo faccio vedere”, dove il contenuto informativo fondamentale non è costituito dalle parole e dai loro significati ma dalle azioni che le accompagnano.
Le tecnologie basate sul computer, in quanto visuali e interattive, permettono di ricreare quest’ambiente, e permettono inoltre, in un futuro abbastanza prossimo quando la rete sarà abbastanza “capace” da portare questi contenuti (larga banda, ecc), di ricrearlo a prescindere dalla compresenza fisica dei partecipanti, che potranno interagirvi e condividerlo ovunque siano situati. Si potrà quindi apprendere e scambiare conoscenze by-passando la barriera linguistica. Se questo scenario che ho appena disegnato è plausibile, allora il processo di globalizzazione in atto avrà caratteristiche diverse da tutto ciò che abbiamo precedentemente visto, non tanto per le sue dimensioni, ma poiché per la prima volta nella storia esso oltrepasserà una barriera biologica umana per approdare a una “globalizzazione della mente”.




Grzinic
Il lavoro di 0100101110101101.org intitolato life_sharing è un’opera d’arte nata per Internet e commissionata da Walker. La si potrebbe anche definire un progetto “web-based” caratterizzato da una bizzarra inversione, da uno scarto: invece di allontanarsi dall’ordinarietà della vita quotidiana per avventurarsi nell’estasi della Internet art, life_sharing devia radicalmente dalle migliaia di possibilità formali del web design (le interfacce innovative che cercano costantemente di farci divertire) per ritornare proprio alla ordinaria vita quotidiana – la disgustosa impotenza della burocrazia, lo scambio della posta e la negoziazione per nuovi progetti.
Questo progetto comprende subdirectory e mappe, dozzine di documenti diversi tra cui messaggi e-mail, prime stesure di progetti curati da 0100101110101101.org, archivi di testi di altri autori con i commenti di 0100101110101101.org, messaggi elettronici, documenti solo abbozzati e annotazioni personali mescolate a brani di testi critici – un’intera banca di documenti virtuali. Un simile gesto ci permette di penetrare in una vita privata. Se hai tempo di fare un giro, scartabella tra carte, documenti, percorsi e testi – chissà quanto tempo è necessario e dove potremo atterrare. 0100101110101101.org sta facendo un buco nella testa alla macchina, come una specie di situazione aliena, una de-realizzazione del sistema-computer e dei contenuti della cosiddetta vita quotidiana. È come se improvvisamente avessimo accesso alle informazioni contenute in un individuo, continuamente e microscopicamente ingigantite, e con tutta la sporcizia e l’attività che riempiono una vita. È come se qualcuno ci permettesse di spiare sotto la sua pelle, di vedere (per così dire) le interiora del corpo e quelle del computer. Questa azione ha in sé qualcosa di disgustoso e respingente, ma allo stesso tempo di molto forte.
In contrasto con le allusioni oscurantiste della New Age – secondo cui Internet e il World Wide Web rendono possibile il naturale scambio artistico e la comunicazione perfetta, life_sharing dimostra chiaramente che la vita è un manufatto messo insieme alla meglio partendo da altri manufatti, piuttosto che sulla base di profonde esperienze. In contrasto con l’idea propugnata dai mass media, secondo cui la vita raggiunge una naturale totalità quando entra in contatto con i nuovi media, i processi della visualizzazione di life_sharing su 0100101110101101.org accentuano ciò che di artificiale, mediatizzato, costruito e innaturale è presente nella vita umana e nei suoi pensieri ed emozioni. L’utilizzo di metodi di riciclaggio suggerisce una radicale ri-problematizzazione dei concetti di originalità e ripetizione, realtà e simulazione mediatica.
La tecnica di 0100101110101101.org consiste nel sovrapporre due ambiti incompatibili, ma permettendo ad essi di invadere i territori reciproci: uno è l’ambito simbolico della rappresentazione (realizzare un progetto di Internet art con una determinata struttura), l’altro è la vita in sé (la spiacevole vicinanza della vita, essere costantemente sul punto di entrare nella vita di un altro/di un’altra e di partecipare della sua privacy, la quale diventa visibile, aperta e proposta come progetto). Per 0100101110101101.org la vita quotidiana funziona quasi come fosse un attimo di vita in decomposizione.
0100101110101101.org ha un approccio strategico se consideriamo che, per parafrasare La Folie du Voir di Christine Buci-Glucksmann, con Internet ormai “gli occhi vedono come possono vedere”. life_sharing permette all’utente di vedere il contenuto burocratico, archivistico e amministrativo della vita quotidiana, e di vedere gli utenti che sbirciano in questi contenuti, diventando a loro volta parte dell’intera operazione.
In contrapposizione allo spazio pulito e puro della realtà virtuale, la realtà materiale e la vita stessa erano fonte di orrore e disgusto, perché erano difficili da integrare nella matrice cyber. Come sottolineato da Julia Kristeva, il materiale diventa ciò che la cultura – il sacro – deve purgare, separare e bandire per poter affermare sé stessa come qualcosa di pulito e disinfettato nella logica universale della catarsi. Se il materiale entra a far parte del cyberspace non è più un oggetto, ma un abietto – il materiale si riduce a un intervento osceno. life_sharing è questo abietto, l’utente ha la sensazione che sia stato commesso un errore, di trovarsi in una situazione senza senso. Manca qualcosa: il design patinato e il contorno kitsch. Al loro posto abbiamo solo un elenco numerato di mappe e di subdirectory.
Ritroviamo lo stesso intervento privo di senso negli errori commessi come concetto e strategia sul WWW e su Internet. L’inserimento di errori in ambienti perfetti e simulati può essere visto, dunque, come un punto nello sviluppo di nuove strategie estetiche e concettuali, poiché l’errore come oggetto d’orrore e disgusto non è integrabile nella matrice. Un errore è come una ferita nell’immagine; è un errore nel corpo o, come ha detto Richard Beardsworth, un fallimento che illustra con precisione la nostra sottomissione al tempo. Commettere un errore è quindi un percorso per trovare il proprio posto nel tempo. In una simile situazione produciamo un divario, uno iato entro cui è possibile inserire non solo un vero e proprio corpo, ma anche la sua interpretazione. Tale errore appare già nel nome del gruppo: 0100101110101101.org, il quale immette a forza chi vi si imbatte ad entrare in un processo di infinita copiatura. Lo strano nome di 0100101110101101.org induce chi lo usa o lo trasmette a copiarlo e incollarlo infinite volte – è troppo difficile ricordarlo con precisione. Già a partire dal nome, quindi, vediamo in 0100101110101101.org un continuo percorso di ricerca: ricerca di metodi di rappresentazione sul WWW e di articolazione del WWW come un archivio (privo di senso) legato ai temi dell’autore, del copiare, incollare, rimuovere e cancellare.
Per capire meglio il progetto di life_sharing, diamo un’occhiata alla storia dell’organizzazione di 0100101110101101.org. Nella comunità della net.art, 0100101110101101.org divenne celebre con il “furto” del sito appartenente alla galleria di net.art (privata e non accessibile) Hell.com, il quale fu scaricato dalla rete in un week-end e messo a disposizione di tutti i visitatori dal sito di 0100101110101101.org. 0100101110101101.org ha realizzato inoltre “versioni” o “remix” di altri noti siti di net.art, tra cui Art.Teleportacia. Influenzati dai metodi dei Situazionisti e, soprattutto, dei Neoisti (la recente attività in Italia era nata sotto questo pseudonimo), quelli di 0100101110101101.org rivolsero il loro approccio a Internet.
La riservatezza circa il nome “0100101110101101.org” è una pratica artistica che spinge l’utente a replicare la matrice della memoria computerizzata (01) – la struttura, potremmo dire, del cervello del computer – e l’apertura della macchina di Internet, fatta di copiare, riutilizzare, rifare la storia e la vita.
Il progetto di 0100101110101101.org Darko Maver – il prank (“scherzo”) del falso artista – fu un’operazione per certi versi simile: Darko fu costruito con foto (o per meglio dire, con documenti fotografici) di atrocità realmente accadute, molte delle quali avevano avuto luogo nel “brandello di casa” di Maver, nell’ex- Yugoslavia. La vita e la morte di Darko Maver si sono svolte come segue: nacque nel 1998 sul sito webzine chiamato “Degenerated Art”, quando 0100101110101101.org cominciò a diffondere informazioni riguardanti un misterioso artista-performer che viaggiava per l’ex-Yugoslavia spostandosi da motel a vecchie case disabitate, vittima di atrocità inscenate e di storie sulla pulizia etnica. Maver nacque nel 1962 vicino a Belgrado e, terminata l’Accademia di Belle Arti, si trasferì a Ljubljana e successivamente in Italia. Fu più volte arrestato e rilasciato in Serbia e in Kosovo, con l’accusa di diffondere propaganda antipatriottica, infine fu incarcerato all’inizio del 1999. Nel maggio 1999 fu annunciata la morte di Darko Maver, avvenuta in carcere in circostanze misteriose.
Il progetto Darko Maver e quello di life_sharing hanno in comune il tentativo di ricollegare l’arte alla vita mescolando dichiaratamente vita fasulla con dati e luoghi reali. Bisogna prendere Darko Maver molto sul serio, percepirlo come un topos e come un tropo, una figura, una costruzione, un manufatto, come movimento e dislocamento. La vita meticolosamente costruita di Maver e la sua morte simulata (le sue morti simulate) oggi sono viste come un costrutto discorsivo banale e incisivo al tempo stesso. Ciò che stiamo cercando di immaginare è che Internet si sia trovato ad occupare il posto dell’impossibile – l’autentico oggetto del desiderio. Ma in esso non c’è nulla di sublime: Internet occupa semplicemente il luogo strutturale, lo spazio proibito del godimento. Accessibilità, non-originalità, riproducibilità: sono queste le caratteristiche che dobbiamo associare a Internet, grazie a 0100101110101101.org.
Lo scopo del progetto life_sharing di 0100101110101101.org’s è quello di mettere in atto la “rovina della rappresentazione” (Jo Anna Isaak), precisamente sulla base di ciò che è stato escluso dall’oggetto non rappresentato (cioè la vita stessa). Questo crea un significato derivante da un’assenza e, in questo modo, perlustra i mezzi attraverso i quali si produce un soggetto, e il corpo. Tali contro-racconti oppongono una tale resistenza da non poter più essere inclusi in un contrasto filosofico binario, ma piuttosto abitano i contrasti binari, resistendo e disorganizzando, senza mai costituire un terzo termine (Jacques Derrida). Il risultato è questo: la decentralizzazione del soggetto fino al punto di eliminare l’esistenza di un dentro e di un fuori, sostituiti da una potente relazione dinamica nei confronti di esterno e interno, dipendenza e indipendenza, arte e natura e, in ultima analisi, verso ciò che è reale e ciò che non lo è.
0100101110101101.org sta compiendo una (de)archiviazione della vita? No, è piuttosto una simulazione delle coordinate politiche ed emotive della vita. Ma non è solo questo: lo stile di vita presentato dal progetto life_sharing mostra chiaramente che la vita su Internet non è altro che un algoritmo. La forza di life _sharing è più a livello libidinale che concettuale, più nei modi in cui “desieriamo” la nostra oppressione che nel modo in cui organizziamo le nostre credenze. Il progetto non tende tanto a mostrare la vita come qualcosa di “altro”, quanto piuttosto a innescare l’idea di avere a che fare con, o vivere con o per mezzo di, contraddizioni. Questo significa che non è solo questione di perdere la vita, ma di riacquisirla tramite un processo di ripensamento del luogo dove essa è stata/è prodotta.
0100101110101101.org si serve di opposizioni estreme per mostrare che la vita è assolutamente mediata, costruita e fabbricata, e che esiste un’identità ipotetica del paradigma informatico e della vita stessa. Dimostra che la vita, invece di essere una forza concreta, è fatta di cliché. Come altro potremmo definire questa montagna di e-mail, scartoffie virtuali, corrispondenza? La strategia non è quella di costruire dei falsi, ma di mettere a punto tattiche capaci di articolare politicamente ed esteticamente una realtà vera e propria e una politica della resistenza, come direbbe Homi K. Bhabha, attorno a un tipo specifico di soggetto che è costruito sul margine della disintegrazione.
0100101110101101.org è quasi fissata con la vita, e raggiunge gli elementi zero di quello che è percepito come il concetto fondamentale di Internet, il quale a sua volta funziona ancora come oggetto sublime. È una visione mortalmente seria, come direbbe Slavoj Zizek, e dimostra chiaramente la caratteristica importante della tecnologia e dei cliché: invece di produrre una nuova identità, si produce qualcosa di molto più radicale – la perdita di identità. Il soggetto è costretto a dedurre di non essere ciò che credeva di essere, ma qualcun altro/qualcos’altro.
Ljubljana, Slovenia
margrz@zrc-sazu.si



Rudi Rizman

“La globalizzazione da un punto di vista tecnologico che sociologico, ha aperto numerose possibilità di produzione ed espressione delle culture nazionali. Gli stati nazionali in queste nuove condizioni sociali non sono più i controllori assoluti e, ciò contribuisce ad una successiva pluralizzazione interna, ovvero alla liberazione della cultura nazionale. Le tecnologie che la globalizzazione porta con se, possono essere di grande sostegno nella conservazione e nello sviluppo dei diversi sistemi culturali.
Con queste tecnologie, per esempio, oggi non è difficile, nelle singole mostre d’arte, nelle sale di studi, nei media divulgare a ampliare “l’interculturalismo”, il che significa una presa di coscienza dell’esistenza di diverse e tra loro complementari culture e civiltà di questo pianeta. La reciprocità interculturale si oppone essenzialmente a quelle troppo spesso espresse divisoni delle genti in due polarità avversarie ovvero due campi che si escludono tra loro, siano questi noi-voi/loro oppure eguali contro diversi. Nell’ottica interculturale, dunque non c’è spazio per un modello culturale universale. L’immagine che però Janus dà della globalizzazione, d’altra parte indica che si sta giungendo ad una asimmetria o meglio ad una stratificazione culturale. Non sono poco numerose quelle culture, che non hanno saputo e non hanno potuto ribellarsi a quell’invasione, sostenuta dalla globalizazione, della televisione, delle finanze, del turismo internazionale, oppure dall’anglizzazione e dal consumismo globale.
Alcune di queste culture si possono arrendere alla fatale illusione, che sia un bene globalizzarsi, in realtà invece, in maniera subdola e sottile, chi più, chi meno si assimila definitivamente, perdendo gradualmente la propria originale identità. Il problema della tutela culturale giocherà perciò un ruolo importante tra gli attenti creatori culturali, tra i gruppi della società civile, che si interessano per i cosiddetti “civilizzati”, in contrapposizione con i “predatori”, sintomi della globalizzazione.
Detto con altre parole e con maggior concretezza, per la cultura slovena una sana globalizzazione significa soprattutto assimilazione di quei punti di vista della globalizzazione, che contribuiscono ad una sua crescita ulteriore e ad una eterogeneità creativa, senza giungere mai alla sua fagocitazione. In questo contesto positivo si giunge alla fusione più o meno spontanea tra qualcosa, che già in forma latente esistente nella “nostra” cultura e che determina sugli influssi esterni o stranieri, un ulteriore sviluppo. A dire il vero, era così anche nel passato – la globalizzazione ha accelerato all’estremo questi processi.

Prof. Rudolf M. Rizman, DDr. (All’Università di Lubiana e Harvard)
Dipartimento di Sociologia, Facoltà di Filosofia, Università di Lubiana,
Slovenia

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