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180 secondi di videoarte
altrecittà
di guglielmo gigliotti
Dammi tre minuti. Perché tanti ne bastano. Per esempio per un video. Alla faccia di chi continua a pensare che l’opera-fiume sia l’unico modo per veicolare grandi messaggi. Così da un’idea curatoriale nasce una mostra –a Francoforte, fino al prossimo gennaio- e la nostra riflessione. Dieci video artisti alle prese con un limite di tempo massimo improrogabile. Un frammento ci salverà?
Dammi tre minuti. Perché tanti ne bastano. Per esempio per un video. Alla faccia di chi continua a pensare che l’opera-fiume sia l’unico modo per veicolare grandi messaggi. Così da un’idea curatoriale nasce una mostra –a Francoforte, fino al prossimo gennaio- e la nostra riflessione. Dieci video artisti alle prese con un limite di tempo massimo improrogabile. Un frammento ci salverà?
Tre minuti, non uno di più. E’ questa la misura temporale delle video-opere di 10 video-artisti internazionali presentati sino al 2 gennaio alla Schirn Kunsthalle di Francoforte, nella rassegna titolata proprio 3’.
I curatori Hans Ulrich Obrist, Max Hollein e Martina Weinhart hanno chiamato a sé Doug Aitken, Anri Sala, Sarah Morris, Philippe Parreno, Isaac Julien, Yang Fudong, Hunnard/Birchler, Jonas Akerlund, Markus Schinwald e Roth Stauffenberg, e, a dedurre dai loro testi in catalogo, possiamo immaginare abbiano detto loro più o meno “vogliamo fare una rassegna di dieci video-opere, una per ciascuno di voi, la cui proiezione complessiva però non duri oltre i trenta minuti. Non vogliamo dieci postazioni diverse, ma una grande proiezione su schermo gigante delle opere in sequenza. E questo perché la fruizione sia lineare, unitaria e comoda, e non frammentata, col pubblico in piedi.
Pensate in chiave di tre minuti. Puntate ad una sintesi iconica e narrativa. Se l’assunto sarà simbolico, sociologico, intimistico o come vi pare, questo lo deciderete ovviamente voi. Il messaggio che noi vogliamo lanciare è sulla misura temporale, una provocazione che vuole essere uno spunto di riflessione. Siamo curatori, tra l’altro, di rassegne video-artistiche, ma siamo anche tra i primi e forse più attenti fruitori delle stesse. Ebbene, non dovrà più capitare di dover attendere il quindicesimo minuto di un’opera video della durata complessiva di 45’, per rendersi conto che è così così…
E’ un problema ormai diffuso, sentito da più parti. La video-arte sta propinando problemi di fruizione. Tre video lunghi e di qualità mediocre visti in sequenza stancano e possono far passare la voglia di vedere gli altri! C’è il rischio che la videoarte imploda per inondazione. Noi vogliamo che rimanga un linguaggio che parli di video, di arte, del mondo e di chi lo abita. Per farlo non c’è bisogno di poemi, ma di racconti brevi, essenziali, che arrivino diretti al cuore e alla mente, evitando tutto ciò che non sia necessario a tal fine, perché l’arte è ed è stata alfine sempre questa. Less is more. Un haiku può essere più potente di 10 romanzi. Una parola azzeccata, più suggestiva di un lungo discorso.
E poi, per il lavoro che fate, sarete i primi ad esservi resi conto che stanno cambiando le modalità comunicative, nonché percettive. Pubblicità, clip musicali, sms, ecc. stanno evidenziano il fenomeno dell’informazione compressa. La soglia di attenzione si sta abbassando. Ebbene, nostro intento è dare una risposta a questo fenomeno epocale.
Come? Lavorando, sì, sulla compressione, ma anche sulla qualità problematica, iconica, narrativa di tale compressione. E’ questa forse una delle missioni della videoarte quando si vuole mettere in rapporto con il contesto massmediologico. E’ il dimostrare che il less può e deve essere more. E non che il more sia less.
Meditate, progettate, filmate, montate: l’esito dovrà essere di tre minuti.”
E tre minuti furono. Tre per dieci fa trenta. Il successo della rassegna di Francoforte è grande. La stampa parla del “Drei Minuten Gesetz”: la “legge dei tre minuti”. Una legge non scritta, consigliata dal buon senso, che potrebbe fare da indicazione cronologica di video futuri. Una legge che farà arrabbiare molti video-artisti per nulla convinti che i “tempi lunghi” – della memoria, della riflessione, del racconto – non perdono nulla se icasticizzati in frammenti d’intensità.
prima foto doug aitken, the moment, 2004 still da video
[exibart]
Caro Guglielmo
Questo problema non riguarda solamente i video ma tutta l’arte contemporanea. Una opulenta abbondanza di immagini ed un uso ansiogeno di modelli mid – culturali sta provocando una sorta di iconofobia. Ti consiglio, se mi posso permettere, di vedere il video della finlandese Anu Pennanen “A monument for the invisible” oppure “no way out” dell’italiano Stanislao di Giugno.
Caro Marcello,
grazie delle “dritte”. Sono mentalmente appuntate.
Sei un critico d’arte, e sfrutto questa risposta per lanciare un’altra piccola “provocazione” (che vuole essere una riflessione: una provo-flessione): l’iconofobia, come la chiami tu, ha strette parentele epocali con la la verbofobia. Parlo di critica d’arte. Che anche per la critica d’arte possa valere la “legge dei tre minuti”? Ovvero: devono bastare massimo tre minuti di lettura per capire le idee chiave di un testo. La compressione deve valere anche per la scrittura, e in molti casi è già così. Non tutti. Ritengo che chiarezza e concisione, invece, non facciano a cazzotti con la complessità. E, come disse il grande Moretti in “Palombella rossa”, “chi pensa chiaro parla chiaro.”
Marcel Duchamp sognava testi critici di una sola parola, ma pregnante, come un fulmine. Anche la sua era una provo-flessione, un bel sostegno a chi ritiene che nella baliamme informativa e accelerata di oggi, la parola, anche quella critica, debba conservare una sua icastica lucidità. Tutto i resto è silenzio.
Caro Guglielmo,
questa volta sono “parzialmente d’accordo con te” ! e poiché la tua è dichiaratamente una provocazione, l’accetto e provo a risponderti.
I tre minuti imposti come durata per i video della mostra mi ricordano i 3 metri x 3 metri x 3 metri imposti dall’architetto Filippo Alison quale misura massima della stanza entro la quale gli studenti del suo corso di arredamento alla Facoltà di Architettura di Napoli, ( io fra essi, era il 1970) dovevano dar capacità di saper organizzare degli spazi.
Imparai la lezione e compresi quanto il “limite”, spaziale o temporale che sia, possa costituire un elemento di stimolo creativo molto forte e come i più capaci, sappiano trasformarlo sottoponendo la loro libertà creativa ad una sorta di forza di compressione.
Fra gli architetti amo Carlo Scarpa per la sua straordinaria capacità di aver fatto nell’arcinoto negozio Olivetti a Venezia , di uno spazio limitato un “compendio di architetture”.
Lunghi video, complessi spazi privi di identità, sono spesso “esercitazioni sul tema” per chi non ha nulla da dire, per chi non sa cogliere l’essenza ( la poetica forse ) delle cose.
Detto questo a dimostrazione di quanto apprezzi la capacità di sintesi, debbo però dissentire da te sulla “presunzione” (scusami!) di poter giudicare un’opera di 45’ in 15’ ! Quell’opera al 16’ potrebbe autocensurare i suoi primi 15’ “svoltando” su altri registri narrativi capaci di riscattare ed inglobare, per contrasto ad esempio, quanto fin lì narrato. Non sono d’accordo con chi sostiene che la vita di un uomo vada giudicata da come muore, ma penso che un film, un romanzo, brevi o lunghissimi che siano, vadano giudicati solo alla parola FINE. Tu sostieni spesso che non esiste un’arte figurativa da contrappore ad un’arte astratta, un’arte attuale da contrapporre ad un’arte superata; sono convinto, provocazione a parte molto apprezzata per la sua capacità di stimolo, che mai lascerai che a condizionare il tuo giudizio di critico possano essere la minore o maggiore lunghezza di un video, il numero delle pagine di un libro, i metri quadrati di un’architettura!
Con la stima di sempre
Raffaello Paiella
Caro Raffaello,
hai ragione.
Ho visto video molto lunghi e molto belli.
Basti pensare ai cinque Cremaster o alla recente video-ambientazione di Sarah Ciracì al Macro.
E ho visto anche video molto brevi e bruttini assai.
Come hai ben capito, quella della mostra di Francoforte, è una provocazione. E’ un messaggio lanciato con garbo a una certa parte di videomaker che prendono troppo alla leggera il linguaggio video. Che è complesso, va conosciuto bene anche nelle sue trappole, nelle sue zone d’ombra (e poesia), nelle sue potenzialità. Almeno la metà dei miei studenti all’Accademia di Belle Arti, poco più che ventenni, vogliono fare i video. Così non va. Adottare un medium implica avere profonda consapevolezza di tale medium. E la mostra di Francoforte vuole essere un invito a non utilizzare il video per raccontare storielline pseudo-ermetiche e simil-concettuali, prive di spessore (e riflessione), e anche un po’ pippose, ma ad usarlo come sonda (che vada giù giù, nella profondità del video e della vita). E questo partendo dall’ipotesi temporale di tre minuti. Una cifra come tante, una cifra piccola, con cui si è voluto lanciare una proposta di confronto, e non certo una inderogabile legge. Libertà ai video (di qualità)!
Sarei anche d’accordo, se non fosse che per la cara, dolce, generosa capacità di annoiarsi sono spesso interminabili anche tre-minuti-tre. Breve, no?
….3 minuti..finalmente!!!!!
per quanto mi riguarda ne basterebbe anche 1!!!il problema della video arte,è proprio questo, spesso la mancanza di contenuto o di un punto fermo di approdo, tendono a diluire il tutto in spazi infiniti e superflui.Il video è comunque un sistema unitario, è come tale deve leggersi. é un’ immagine che si da’ nel tempo, anche se composta. spesso si inceppa nel meccanismo del “non so come dirlo in un’immagine, ci provo con un video “…………………………………..