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A proposito di Responding to Rome

di - 5 Dicembre 2011
In occasione del ‘Focus’ dedicato alla Gran Bretagna del Festival Internazionale del Cinema di Roma, l’Accademia Britannica ha presentato il 4 novembre 2011 un programma intitolato Responding to Rome, comprendente otto video di artisti britannici: Jordan Baseman, Louise Camrass, Marion Coutts, Mark Dunhill & Tamiko O’Brien, Mike Marshall, Pat Naldi, Stephanie Smith/Edward Stewart, Aaron Williamson. Caratteristica comune a tutte le opere è di essere state realizzate a Roma.
Inedito in Italia, il programma era stato parte della mostra Responding to Rome. British Artists in Rome 1995-2005, che ho curato nel 2006 presso la Estorick Collection di Londra, e che comprendeva opere di trentacinque artisti scelti tra i circa centocinquanta residenti all’Accademia Britannica fra il 1995  e il 2005, e dava conto sia della diversità e qualità della recente pratica artistica britannica, sia della ricchezza e vastità dell’ispirazione fornita dalla Roma antica, moderna e contemporanea.
Ogni anno all’Accademia Britannica si trovano fianco a fianco giovani emergenti e artisti più avanti nel loro percorso professionale, non di rado noti e stimati nel mondo dell’arte britannico. Ognuno ha differenti ragioni per voler venire a Roma. Tutti hanno la possibilità di dedicarsi esclusivamente al proprio lavoro per un certo periodo, e al tempo stesso di cercare di comprendere Roma. Ma non ci vuole una vita per comprendere una città così stratificata e multiforme? Come possono dunque farlo artisti stranieri che vi risiedono per un periodo di tempo relativamente breve?

Come notava l’architetto David Bass (residente alla BSR nel 1993-94) nel suo importante saggio “Insiders and Outsiders.  Latent Urban Thinking in Movies of Modern Rome” [in François Penz, Maureen Thomas (eds.), Cinema & Architecture. Méliès, Mallet-Stevens, Multimedia, London: British Film Institute, 1997], «l’enorme complessità sociale e materiale di Roma e il suo paradossale rapporto con il tempo (il suo epiteto ‘eterna’ testimonia della sua capacità di cambiare) rende illimitato il numero di possibili ‘approcci’ alla città». Così gli otto video di Responding to Rome,  per dirla con Bass, “costruiscono un’unità latente attraverso l’accumulazione di frammenti”.
Che cosa succederebbe se questi otto frammenti venissero uniti, come in un gioco di ‘join the dots’? Costruirebbero una mappa d’artista collettiva della città di Roma, tracciata nell’arco di circa cinque anni, una versione contemporanea dei medievali ‘mirabilia urbis Romae’ – alcuni dei luoghi scelti sono gli stessi: la ‘porta Lavicana quae dicitur Maggiore’ in Translation/Translatio (2003) di Aaron Williamson, che riporta l’atto di ‘tradurre’ al suo significato originario di ‘trasportare’; il ‘mons Ianiculus’ (con il suo cannone che segna il mezzogiorno) nel video High Noon at 12°21’8” (2000) di Pat Naldi; il video Epic di Marion Coutts (2002) si riferisce al prototipo di tutte le statue equestri, il ‘caballus hereus qui dicitur Constantini’, anche se qui sono gli umani a portare il cavallo e non viceversa.
Ma gli artisti hanno indagato il presente di Roma e non solo il suo passato. L’attraversamento delle frontiere – questione a tutt’oggi aperta – è presente in maniera diretta e drammatica nel video Daniel (2003) di Jordan Baseman, colloquio tra la voce fuori campo dell’artista e la presenza di un immigrato romeno che chiede l’elemosina in Via del Corso, e in maniera ironica e mediata in Gates (2003) di Mark Dunhill & Tamiko O’Brien, che mettono in mostra i cancelli che separano gli interni di alcune accademie straniere dalla città al loro esterno.
In diversi degli otto video ci sono delle porte: da quella dell’Accademia Britannica ai cancelli delle accademie straniere, alle porte nelle mura di Roma. Attraversare una porta, un cancello, è come passare una frontiera.
Porte e cancelli sono dispositivi di inclusione o esclusione, e in questo senso alludono all’immigrazione – legale e illegale. Gli artisti britannici a Roma appartengono alla prima categoria di immigrati, con la loro cittadinanza europea, il loro permesso di soggiorno, e la loro tessera di ingresso gratuito a monumenti e musei statali.
Ma i loro video alludono alla difficoltà di misurarsi con Roma anche se vi risiedono come immigrati regolari: sono ‘insiders’ o ‘outsiders’?

Alcuni artisti hanno preso la stessa Accademia Britannica come soggetto o ambientazione della loro opera. Non è un’idea peregrina: l’esterno è una ‘wilderness’, la lingua e la cultura italiane sono difficili da capire e più difficili da assimilare; l’Accademia ha molto da offrire, materialmente – la biblioteca, l’archivio, le mostre e conferenze, il laboratorio archeologico – e umanamente – non solo gli studiosi residenti, provenienti da diversi paesi del Commonwealth, ma anche il personale italiano, come nel caso del toccante ritratto fatto da Louise Camrass del giardiniere Rino Ramazzotti (2002).
Altri hanno oltrepassato il cancello. I giardini di Villa Borghese costituiscono per l’Accademia il più vicino spazio in cui la ‘wilderness’ si insinua nello spazio urbano; Mike Marshall in A Place Not Too Far Away (2005) li ha filmati come fossero una sorta di versione più bonaria della ‘région centrale’, mentre Stephanie Smith & Edward Stewart sono andati a riprendervi furtivamente delle coppie di amanti – parodiando l’Antonioni londinese di Blow Up.
Così Roma, guardata da un occhio britannico, assume una connotazione ibrida. Ma del resto, non aveva detto Edward Said (in Cultura e imperialismo) che l’esperienza culturale, e più in generale ogni forma culturale, è radicalmente e quintessenzialmente ibrida? E Michel Serres (in Roma. Il libro delle fondazioni) non ricordava forse che Roma è un miscuglio di forestieri, ma che proprio il miscuglio resiste al tempo, perché il miscuglio è il tempo?
a cura di jacopo benci

[exibart]

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