Categorie: altrecittà

Alla scoperta dell’est londinese. | In bici e con il taccuino

di - 26 Aprile 2014
Sono le 10.30 di mattina. Il cielo è nuvoloso, ma oggi lascio a casa l’ombrello e insieme alla mia bici vi racconto Londra, facendovi pedalare nella parte est, quella che mostrerei all’amico appassionato di arte, book shop, caffé e paesaggi post-industriali. L’amico che a Londra è già stato mille volte e, magari arriva per dormire su un divano in una casa in condivisione, in una periferia grigia e multietnica, ma per qualcuno tremendamente sexy. In soldini, un hipster direte voi, ma invece è semplicemente un amico a cui interessa vedere la Londra di tutti giorni e mi rivolgo a voi come se voi foste quell’amico. Benvenuti in città, siete miei ospiti.
Prima regola: indossare il casco (d’obbligo per i londinesi). Partiamo da Dalston: un suggestivo assemblaggio tra kebabbari, studi d’artista e musica dance. In altre parole, una miscela esplosiva per il mercato immobiliare. Dicono che 10 anni fa a Dalston si sparavano la sera in strada, oggi la sua variegata miscela tra autentico e nuovo, decadenza e avanguardia, ne fa l’emblema della gentrificazione (in inglese, gentrification, deriva da gentry, termine che indica la piccola nobiltà inglese). Per chi non lo sapesse, gentrificazione si riferisce a quei cambiamenti strutturali e socio-culturali in un quartiere, conseguenti all’acquisto di beni immobili da parte di una fascia di popolazione benestante (la cosiddetta middle-class) in una comunità meno ricca. Questo termine non poteva che nascere (e avere grande fortuna) a Londra, proprio perché ne definisce la velocità con cui i suoi quartieri si trasformano e si “imbelliscono”, diventando implacabilmente più cari. Ma chi sono i colpevoli? È un discorso complicato ma alcuni studi sembrerebbero elencare tra i responsabili i nostri cari hipster, definiti middle gentrifier, i quali dopo essersi riversati nelle zone economiche della città ne conferiscono lo status di “quartiere alla moda”, alzando gli affitti e cacciando la comunità (a Dalston, prevalentemente turca) insediata da anni. Ma anche sé stessi in quanto non potranno permettersi le oltre 700 sterline mensili per una camera!
Qui a Dalston un anno fa Astrid Korporaal, Francesca von Zedtwitz-Arnim e Guido Santandrea avevano aperto Almanac, uno spazio al 55 di Dalston Lane. Mi ricordo di essere capitata l’anno scorso ad una performance di Luca De Leva, Blarney 5×3, la quale consisteva in una decina di performer che, a ritmo di codice Morse, baciavano i muri dello spazio. Blarney, traducibile in italiano come parlantina, si riferisce ad un castello irlandese dove è custodita la pietra di Blarney appunto, la quale, la leggenda dice, è in grado di offrire il dono dell’eloquenza. 5X3 centimetri invece è la dimensione della bocca di De Leva. In questo senso, gli instancabili baciatori sembravano voler sottolineare, attraverso il movimento e ritmo delle loro labbra, i codici criptici tipici dell’arte e dei suoi linguaggi. Nelle ultime settimane un bel cartello dell’agenzia immobiliare Paul BelChack & Co segnala che lo spazio è stato venduto per futuri sviluppi edilizi. Infatti, nei prossimi mesi Almanac, data l’impennata dell’affitto, lascerà il posto ad un trendy café (l’ennesimo a Dalston) per continuare in forma di progetto curatoriale nomade, sicuramente in una versione economicamente più gestibile.
Andiamo avanti di 600 metri per raggiungere la stazione del treno di Hackney Downs. Sulla piattaforma 1 dal 2009, Ami Clarke gestisce uno spazio multidisciplinare, Banner Repetear, la cui missione è guidata dalla stessa location: una piattaforma del treno che vede una media di 4mila passeggeri al giorno. Aperto 6 giorni su 7, e nei feriali dalle 8 del mattino in poi, focalizza la sua attività (con un’energia quasi miliziana) nella distribuzione di volantini, poster e mini pubblicazioni rigorosamente gratuite, proponendo un’alternativa concreta alle spesso squallide letture della free press consumate giornalmente dai pendolari. Certamente Banner Repeater è uno spazio impegnato, ma più di tutto è un rifugio confortevole in cui ripararsi nell’attesa del treno per imbattersi in pubblicazioni singolari.
Riprendiamo la bici, in un battibaleno ci troviamo a London Fields, su Broadway Market dove la domenica c’è uno dei mercati più caratteristici e meno battuti dai turisti. Qui la trasformazione è già avvenuta, lo capisci dai vintage, i bike shop, i pub curati e soprattutto da quell’atmosfera d’insieme idilliaca, quasi rurale. Giriamo a destra su Andrews Road, una strada che si estende per un tratto lungo il canale. Improvvisamente si stagliano delle architetture circolari in ferro, davanti un edificio di una decina di piani, è il Regent Studios. Qui, fra le varie attività, si distingue Five Years, un progetto gestito da dodici artisti. L’anno scorso, durante Art Licks Weekend, hanno presentato This is not Public, una serie di seminari aperti che esploravano il concetto di pubblico, ponendosi come punto di partenza le domande degli application form dell’Arts Council.
Ma riprendiamo il nostro tour. Continuiamo scendendo giù per Regent’s Canal, fino a Victoria Park nel quartiere di Mile End. In lontananza vediamo i grattacieli di Canary Wharf verso cui ci stiamo dirigendo, un’isola costruita nelle acque del Tamigi, mecca della finanza mondiale, vero e proprio gioiello dell’ingegneria. Ma sul canale siamo ancora nella periferia (quasi) illibata dove le architetture si intravedono da lontano incorniciate dall’erba incolta. Il prossimo spazio, imperdibile, in questa discesa verso il sud è sicuramente Chisenhale. Da oltre 30 anni promuove in maniera rigorosa artisti mid-carrer. Di qui sono passati nomi come Rachel Whiteread, Wolfgang Tillmans, Paul Noble e Pipilotti Rist. Ma spingendoci ancora più in la, quando sembrerebbe che ogni parvenza di arte sia esaurita, ci si imbatte in due istituzione di tutto rispetto, Matt’s Gallery e ACME Studios al 42 e 44 di Copperfield Rd. Matt’s fondata nel 1979, ACME nel 1972.
Se la prima si è sviluppata come centro espositivo realizzando ambiziosi progetti multidiscliplinari, la seconda in questi anni ha provveduto, grazie ad una determinata campagna di ricerca fondi, a creare degli studi a prezzi abbordabili per oltre 5mila artisti e fare dell’est di Londra l’eldorado della contemporaneità.
E ci rimettiamo a pedalare per finire il tour nella marina di Limehouse, una delle zone facenti parte dei Docklands. Il nome Limehouse discende dal termine lime kiln, la fornace per le terrecotte sita vicino al fiume e che forniva stoviglie e tegami alle navi che frequentavano il porto di Londra. Quella fornace ovviamente non è più in uso e alle navi commerciali del XIX secolo si sono sostituiti gli yacht in fibra di carbonio dei CEO della City e di Canary Wharf proprio dietro l’angolo. Ancora una volta Londra ci lascia testimonianza della sua incessante rigenerazione urbana, di una città in continua evoluzione dove tutto cambia, tutto succede alla velocità del suo stesso meteo.

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