06 novembre 2011

Artissima è maggiorenne

 
Compie 18 anni quet'anno una delle fiere più importanti del panorama artistico contemporaneo, ma quali sono gli esiti di quest'anno? Angelo Capasso fa il punto della situazione...

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Si chiude anche questa 18° edizione di Artissima con il sorriso sulle labbra di molti. Rispetto alle fiere nazionali precedenti, qui a Torino sembra respirarsi un’aria timidamente euforica (non proprio baldanzosa, ma forse per scaramanzia), che lascia ben sperare in un miglioramento nell’andamento delle fiere di arte, dopo i disastri recenti. E se l’Italia ripartisse dall’arte? Questo potrebbe essere lo slogan propositivo che un esperimento cresciuto di livello in 18 edizioni, suggerisce a coloro che hanno sempre sperato in una centralità dell’arte nella società, nella cultura, nell’economia. E quindi, bisogna misurarne i confini di questo ottimismo dimesso, che si respira a Torino. Che veramente si riesca a cambiare in Italia? E’ possibile. Gli esiti positivi di questa Artissima sono corroborati soprattutto da una moltiplicazione di eventi, che si sono dislocati non solo nell’Oval, sede centrale della fiera, ma hanno riguardato luoghi diversi della città, come nel caso di The Others e Paratissima. All’Oval, si ritrovano 161 Gallerie, con un numero cospicuo di operatori provenienti da fuori Italia. La realizzazione dell’allestimento è stata curata dai designer di Sara De Bondt studio. A loro si deve l’idea, brillante a mio avviso, di adottare uno stile grafico britishly low profile, da “ufficio statistica” in tutta la comunicazione, onde evitare il design ridondante di molte fiere d’arte italiane che conferiscono a queste un carattere spinto sul fronte mercantile. Il catalogo di questa Artissima della maggiore età intende fare concorrenza alla migliore produzione editoriale dei grandi eventi d’arte, come la rigorosissima Documenta: vi si ritrovano indagini statistiche, testi di approfondimento, analisi conoscitive sui soggetti partecipanti alla fiera (non solo le opere d’arte, ma i galleristi, le gallerie, i curatori). Insomma è un archivio di informazioni raccolto in un formato compatto efficace e intelligente, tanto da fare invidia anche ad alcuni cataloghi della Biennale.

 Lo stile “archivistico” della grafica si ritrova poi in tutta la fiera, e rispecchia la disposizione dei diversi padiglioni divisi in sezioni tematiche, dove oltre all’ordinaria rassegna di gallerie nazionali ed internazionali, troviamo alcune sezioni specifiche che rappresentano la vera novità di Artissima 18 (la fiera della maggiore età!), e sono: Back to the Future, New Entries, Present Future. La lingua inglese, anche qui ritorna per segnalare il carattere internazionale dell’evento, e scaramanticamente vuole essere un buon auspicio per il risultato. Le tre sezioni descrivono un arco temporale che parte dagli anni sessanta e giunge fino ai giorni nostri, dove si ricercano i semi per il futuro. Artissima quindi conferma la propria ascendenza nel territorio in ebollizione dell’arte contemporanea, anzi, della scena più avanzata del contemporaneo che identifichiamo nel presente, i cui confini arrivano fino agli anni sessanta, lì dove gli artisti viventi hanno mosso le prime azioni. Questo slancio verso l’attualità e la totale assenza di altri settori dell’arte (il moderno, le gallerie di secondo mercato, etc.), conferisce freschezza alla fiera e uno stile dinamico capace di rispondere alle domande del pubblico più giovane. A questo tipo di pubblico, sembra rivolgersi Artissima. E la risposta, su questo fronte, sembra essere stata puntuale. Nelle ambizioni del suo direttore, Manacorda, Artissima puntava a superare i 50 mila visitatori, e credo che ci sia riuscita. La presenza delle gallerie è stata alquanto ricca, con la presenza di nomi internazionali e nazionali di livello, sia tra le gallerie storiche che tra le esordienti.
La nota originale è stata l’apertura ai Musei di arte contemporanea, segnalata forse anche dal museo immaginario ideato dal direttore di Artissima, Manacorda e da Lara Favaretto, artista di Franco Noero, galleria di punta di Torino. E quindi si ritrova in questa fiera anche la presenza della Whitechapel, che si presenta quindi per articolare il grande discorso del “sistema dell’arte” in tutti i suoi aspetti.
Un’altra nota positiva di Artissima 18 è il suo carattere didattico. Non stiamo parlando certo dei talks internazionali di Frieze, ma una attività educativa gestita in uno spazio concepito da Zonarte che riassume in se operatori dei dipartimenti educativi del Castello di Rivoli, Galleria Comunale, Fondazione Merz, cittadellarte/Fondazione Pistoletto, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e PAV.

Rimandata a Settembre (in termini di preparazione, è il caso di dire, sul piano espositivo attendiamo il solito appuntamento di Novembre) è per The Others, la fiera parallela dedicata all’arte giovane: il fine sarebbe dovuto essere quello di aprire alle energie più fresche, ma le scelte curatoriali non hanno interpretato puntualmente questa richiesta, lasciando il successo dell’operazione più ai luoghi suggestivi dell’ex carcere e all’atmosfera festaiola in atto, alimentata dalla musica e dalla disponibilità di bevande e cibi più o meno biologici. Per quanto riguarda The Others quindi attendiamo una nuova edizione per misurarne le reali potenzialità quale collettore di energia giovane, originale, ma anche matura sul piano artistico, soprattutto perché quell’appellativo “gli altri” non divenga sintomo di diversa qualità, rispetto alla madrina. Il segnale più interessante di The Others è però il ritorno di Casiraghi a Torino, dopo The Road to Contemporay di Roma. Che sia un segnale del suo abbandono della capitale? Oltre a The Others e Paratissima, un evento di grande richiamo in queste giornate di Arte a Torino è stato la mostra alla Pinacoteca Agnelli “The Urethra Post Card Art of Gilbert & George”: una raccolta di raccolta di 564 opere in carta (tra volantini, cartoline, biglietti di prestazioni sessuali trovati nelle cabine telefoniche di Londra), disposte accuratamente in un’installazione ortogonale a forma di rettangolo con al centro Uretra: l’icona del simbolo sessuale utilizzata dal teosofo progressista C.W. Leadbeater (1854-1934).
Dal punto di vista della scena politica, bisogna registrare il presenzialismo del sindaco Fassino, che nella conferenza stampa si è prodigato in promesse di progetti dedicati all’arte, tra cui l’ipotesi di costituire una Fondazione che racchiuderebbe in sé la Galleria Comunale, il Castello di Rivoli, Artissima. E’ l’assessore alla cultura Michele Coppola a raccogliere l’accenno del sindaco al progetto, ed ha chiarirne gli obiettivi: efficienza ed integrazione. Si parla anche di un unico responsabile per coordinare la programmazione delle mostre. Nasce però un sospetto: non ci sarà il rischio di una omologazione politica, così come è successo in passato in altre città gestite dal centro sinistra, dove i burocrati si sono sostituiti ai curatori? Lo slancio di Fassino, in questa semieuforia dettata forse dalla fine del berlusconismo, ricorda lo slancio che Tony Blair ebbe durante la sua prima campagna elettorale e che lo condusse sul trono del numero due del governo britannico (dopo la Regina) per ben 3 legislature. Si è trattato certamente di un esempio di successo per la vita culturale inglese, pagato poi a caro prezzo dalle scelte di politica interna e estera fatte dal Primo Ministro sull’onda di questo successo.

La proposta del sindaco però suggella anche un patto, sostanziale per questa fiera, che ha messo insieme un numero di sponsor di tutto riguardo. Oltre alla triade politico amministrativa costituita dalla Città di Torino, Regione Piemonte, Provincia di Torino, si sono prodigati nella sponsorizzazione della Fiera: Unicredit, Fondazione per l’arte CRT, Illy Caffè, Iren, Lauretana, Open Care Compagnia San Paolo, Camera di Commercio, e soprattutto – è il caso di dirlo – la Fiat, che da questa edizione si trasforma da sponsor tecnico in sponsor vero e proprio, portando denaro sonante. Anche questo un segnale, forse, di un patto economico-politico che lancia il PD torinese in sostituzione a quello romano, decaduto dopo la sconfitta reiterata di Walter Veltroni. La politica può fare certamente molto per l’arte. Quindi ben vengano le scelte atte a favorirne lo sviluppo. Ci auguriamo che non si tratti di un modo per divorare le potenzialità dell’arte, come nel caso di Blair, per semplici scopi di strategia di marketing. In effetti, la presenza di opere di Burri, Mondrian, Sol Lewitt, Robert Gober, in formato commestibile, realizzate da EatItaly, potrebbero essere un segnale inquietante: per una collezione temporanea per avidi stomaci delicatissimi. In ogni caso, buon compleanno Artissima!
a cura di angelo capasso
 
 
foto in alto: Artissima 18, The green corridor, foto di Sebastiano Pellion di Persano
 
 
 
[exibart]

5 Commenti

  1. I galleristi dicono che “hanno venduto abbastanza”. 🙂

    Sicuramente se un gallerista non ha venduto, sarebbe stupido nel dichiararlo. Non stanno vendendo “tendine per il bagno”, se dichiarano il “fallimento” la galleria perde in STATUS e in futuro rischierà di non vendere ancora…quindi bisogna sempre dire che si vende..

    Ma il punto non è vendere o non vendere ma un sistema che non crea punti di riferimento per vendere di più e vendere meglio (assenza di critica d’arte, assenza di pubblico vero, i collezionisti non sono pubblico, sono addetti ai lavori).
    Il collezionismo (al di là di opere/valori consolidati) si divide tra “quello mi piace e lo compro” (in questo caso arredano casa ad Artissima invece che all’ikea) e coloro i quali comprano e hanno comprato BIDONI. Cosa determina il valore di un’opera? Soprattutto per gli artisti giovani e mid-career? Soprattutto SENZA una critica d’arte che funziona? Al momento si tratta di proporre buoni standard nei luogi appropriati e attraverso le relazioni appropriate. Luoghi e relazioni diventano materia delle opere (v. plays).

    Tende ad accadere quello che è successo nel caso Parmalat a fine anni ’90: pochi operatori determinano e gonfiano arbitrariamente il valore dei titoli azionari, delle opere (visto che non esiste nemmeno una critica d’arte vivace che possa fornire punti di riferimento diversi). Ma mentre i risparmiatori Parmalat hanno PROTESTATO (voice) il collezionista sta zitto per non perdere in STATUS e per poter riuscire a rivendere il suo bidone. L’immaginario dell’arte riesce a disinnescare anche la “protesta”, che potrebbe essere anch’essa una forma di critica.

    Quindi il sistema di mercato dell’arte, oggi più di ieri, si basa sull’omertà dei galleristi e dei collezionisti. Nessuno ha interesse ad argomentare, a tutti conviene mantenere un aplomb di compiacimento e calma, anche se la nave affonda. A questo va aggiunta l’omertà e l’incapacità della CRITICA, spesso connivente con un sistema che potrebbe dare lei lavoro, anche se poi delude ed illude sistematicamente:

    http://www.flashartonline.it/interno.php?pagina=onweb_det&id_art=669&det=ok&titolo=UNO,-NESSUNO,-CENTOMILA

    Il sistema funziona fino a quando gira denaro, e non c’è crisi; il sistema tende a crollare con la crisi, quando i collezionisti capiscono, e non sono più disposti a farsi prendere in giro. Ovviamente non sto parlando di valori e artisti “consolidati” (‘900 e fine anni 90).

    Quindi permane un problema di assenza di critica (alternativa alla dittatura del mercato) e di assenza di pubblico. Questa constatazione non può più prescindere dal definire un ‘alternativa progettuale. Ed ecco come è centrale la fusione, confusione ed ibridazione dei ruoli al fine di ridiscutere format, ruolo e linguaggio.

  2. I galleristi dicono che “hanno venduto abbastanza”. 🙂

    Sicuramente se un gallerista non ha venduto, sarebbe stupido nel dichiararlo. Non stanno vendendo “tendine per il bagno”, se dichiarano il “fallimento” la galleria perde in STATUS e in futuro rischierà di non vendere ancora…quindi bisogna sempre dire che si vende..

    Ma il punto non è vendere o non vendere ma un sistema che non crea punti di riferimento per vendere di più e vendere meglio (assenza di critica d’arte, assenza di pubblico vero, i collezionisti non sono pubblico, sono addetti ai lavori).
    Il collezionismo (al di là di opere/valori consolidati) si divide tra “quello mi piace e lo compro” (in questo caso arredano casa ad Artissima invece che all’ikea) e coloro i quali comprano e hanno comprato BIDONI. Cosa determina il valore di un’opera? Soprattutto per gli artisti giovani e mid-career? Soprattutto SENZA una critica d’arte che funziona? Al momento si tratta di proporre buoni standard nei luogi appropriati e attraverso le relazioni appropriate. Luoghi e relazioni diventano materia delle opere (v. plays).

    Tende ad accadere quello che è successo nel caso Parmalat a fine anni ’90: pochi operatori determinano e gonfiano arbitrariamente il valore dei titoli azionari, delle opere (visto che non esiste nemmeno una critica d’arte vivace che possa fornire punti di riferimento diversi). Ma mentre i risparmiatori Parmalat hanno PROTESTATO (voice) il collezionista sta zitto per non perdere in STATUS e per poter riuscire a rivendere il suo bidone. L’immaginario dell’arte riesce a disinnescare anche la “protesta”, che potrebbe essere anch’essa una forma di critica.

    Quindi il sistema di mercato dell’arte, oggi più di ieri, si basa sull’omertà dei galleristi e dei collezionisti. Nessuno ha interesse ad argomentare, a tutti conviene mantenere un aplomb di compiacimento e calma, anche se la nave affonda. A questo va aggiunta l’omertà e l’incapacità della CRITICA, spesso connivente con un sistema che potrebbe dare lei lavoro, anche se poi delude ed illude sistematicamente:

    http://www.flashartonline.it/interno.php?pagina=onweb_det&id_art=669&det=ok&titolo=UNO,-NESSUNO,-CENTOMILA

    Il sistema funziona fino a quando gira denaro, e non c’è crisi; il sistema tende a crollare con la crisi, quando i collezionisti capiscono, e non sono più disposti a farsi prendere in giro. Ovviamente non sto parlando di valori e artisti “consolidati” (‘900 e fine anni 90).

    Quindi permane un problema di assenza di critica (alternativa alla dittatura del mercato) e di assenza di pubblico. Questa constatazione non può più prescindere dal definire un ‘alternativa progettuale. Ed ecco come è centrale la fusione, confusione ed ibridazione dei ruoli al fine di ridiscutere format, ruolo e linguaggio.

  3. Capasso forse dimentica che le fiere sono occasioni commerciali e che i propositi per quanto buoni, non ne potranno mai cambiare la natura. Se le gallerie vendono, ci ritornano altrimenti l’anno successivo non confermeranno la loro presenza, così come accade puntualmente con la quasi totalità delle gallerie straniere. In poche parole anche quest’anno Artissima si conferma come il solito “bidone”, pochissime gallerie vendono, le altre ci vanno per finanziare l’ente fiera.
    Quest’anno poi c’è stato il festival della mancanza di fantasia. Gli stand si susseguivano uno dopo l’altro con lavori tra loro simili sebbene realizzati da artisti diversi, ogni tanto (ma rara) una pausa in un piattume davvero deprimete.
    Datevi una mossa e cambiate la commissione di selezione. A quanto pare hanno i paraocchi.

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