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ATHOS ONGARO: artista/cowboy

di - 7 Ottobre 2011
L’arte di Athos Ongaro (1947) può apparire ironica e accattivante, ma mantiene una quota di ambiguità che resiste a qualunque interpretazione. Nelle sue opere si assiste a una messinscena inesauribile, in cui fanno la loro comparsa figure afferenti alla civiltà minoica, alla mitologia classica, al cristianesimo, al manierismo, al neoclassicismo – ma anche al liberty, al minimalismo, al mondo delle fiabe e dei cartoon americani, elementi sempre riletti in una chiave inedita, spesso irridente, solo in apparenza irriverente.
Che siano sculture, bassorilievi, mosaici o pitture, le opere di Ongaro sanno dare vita a un universo di senso stratificato, pieno di rimandi difficilmente decifrabili, ma di grande impatto: ambigui bonzi sorridenti fanno il paio con dipinti ispirati a visioni cosmiche, paesaggi da sogno sono abitati da personaggi di inquietanti cartoni animati. Ma ovunque resta sempre schiettamente presente un confronto a tu per tu con i materiali, le tecniche, la manualità, che toglie ogni dubbio e che calma l’incertezza intellettuale. Ogni suo pezzo è proprio questo: un talismano, un oggetto dotato di un potere magico, anzi taumaturgico, che tocca l’anima ammalata, e la guarisce.
Nei grandi spazi seminterrati del centro Pecci dedicati storicamente alla Collezione, e recentemente a mostre personali temporanee, verranno dislocati i grandi quadri a olio a tema cosmico (tutti realizzati a partire dalla “svolta” pittorica del 2000), unitamente alle sorprendenti opere scultoree in vari materiali dei due decenni precedenti (mosaici, bronzi, marmi e legni).
La prima questione che le opere – e segnatamente le sculture – di Ongaro sollevano con forza è quella del ruolo del classico nel nostro bagaglio iconografico: opere imponenti, realizzate fra l’altro nel tipico marmo statuario a cui basta uno sguardo appena più attento per capire che il classicismo a cui sembrano ispirarsi va in frantumi prima  ancora di poterlo anche solo visualizzare appieno.
Dovunque si volga l’attenzione, nelle sue opere tutto ciò che allude al classico paradossalmente anche lo smentisce, lo chiama in campo e insieme lo scredita, ne tesse l’elogio solo per svergognarlo.
Che facciano quindi il loro ingresso, per esempio, efebiche fanciulle dall’ambiguo erotismo in pose plastiche ma con forme appena accennate avvinte dall’abbraccio furbescamente ammiccante di un babbuino abbrancato alle calcagna.

Stando a quanto precisa l’artista è come se i neoclassici si fossero fatti un bel film sul classico, invece che viverlo in prima persona – ma un film che è come un sogno, o meglio un incubo che trasforma il suo soggetto in un tormento. Alla fine, al posto del classico abbiamo il suo fantasma, ma è proprio da questo momento in poi che l’arte contemporanea diventa un affare di spettri, un’arte-zombie che come dice Hegel “sopravvive a se stessa”.
Lo zigzagare di Ongaro insegna tutto questo: a diffidare delle facili etichette, a muoversi con intelligenza frammista a furbizia fra i simboli culturali, a farli risuonare uno dentro l’altro e a creare un’arte affatto anacronistica ma piuttosto sincronica, costruendo precisi riferimenti che si mettono di traverso rispetto alla distribuzione storica degli eventi, portandoli imprevedibilmente a “prendersi per mano” sullo stesso piano temporale.
Fortemente riconoscibili sono, di conseguenza, i due assi espressivi e parimenti ideologici su cui Athos Ongaro fa equilibrismo: da un lato la dissoluzione, a suon di opere, di ogni identificazione stabile con una maniera o stile predefinito e già etichettato e dall’altro la ridistribuzione dei materiali eterogenei così ottenuti su un piano di sostanziale concomitanza.
Classico, manierismo, barocco, postmoderno, ma anche minimalismo, pop, citazionismo, sono categorie che non sono semplicemente accettate o rifiutate, ma che vengono spostate rispetto a se stesse, sfasate nei confronti della propria identità. E’ appunto questo che dà a tutti i suoi lavori quella particolare atmosfera di incertezza “esistenziale” che ne costituisce il fascino specifico. D’altra parte, soprattutto nella produzione pittorica posteriore al 2000 (un anno di “svolta” anche biografica), si assiste a un fenomeno diverso: suggestioni provenienti dagli universi simbolici più disparati – che compaiono e vengono discussi nei testi teorici di Ongaro – dalla statuaria minoica a Duchamp, dai cartoni animati di tendenza come Chicken & Cow, a rimandi alle favole come Pinocchio o Cappuccetto Rosso, dalle teste in pietra dei Maoi a personaggi letterari come Lolita, ogni rimando viene collocato all’interno di una cornice cosmico-paesaggistica che sembra ricomprenderne il senso e idealizzarne la funzione.

Ciò che emerge è un’arte contemporanea intesa non solo come il segmento più recente di una vicenda espressiva in vita da secoli, ma un’arte che sia “contemporanea” a se stessa e a tutta l’arte di sempre.
Un percorso creativo all’altezza dei nostri tempi e del Tempo, un tempo in cui l’uomo sta per iniziare un nomadismo cosmico e assoluto dove non esisteranno più le classiche separazioni spaziali ed ideali tra Oriente ed Occidente, ma un’arte radicalmente nomade e sincronica, il cui compito autentico sarebbe quello di edificare una vera  e nuova cosmologia.
Ogni singola esposizione si prefigura, così, come un’autentica riscoperta e consacrazione di uno tra gli artisti più irregolari e inclassificabili – molto italiano per forme e riferimenti iconografici, ma del tutto internazionale per frequentazioni e scelte biografiche, un artista che ha lavorato a lungo negli USA negli anni’80, con mostre presso gallerie mitiche come Annina Nosei, e attualmente residente tra l’isola greca di Santorini e la capitale serba Belgrado.
Un artista dotato di un’intelligenza medianica, ben espressa anche dai suoi formidabili testi a metà tra narrazione fantastica e acuta riflessione filosofica nonchè sostenuta da un mestiere senza paragoni.
La prova ultima del valore artistico di un’opera d’arte è la sua capacità di “funzionare” anche in un contesto differente, ha detto una volta Slavoj Zizek. E le opere di Ongaro, sempre stranamente decontestualizzate rispetto a se stesse e a ciò che le circonda, sembrano misteriosamente “indossare” questo messaggio.

Siam così alla fine di una traversata che ci ha portato fin sulla soglia dell’arcano dove il rumore del mondo s’acquieta ed il silenzio isola suono da suono, finché percepiamo che il suono stesso è silenzio e il vuoto la radice delle cose. La navicella concettuale che ci ha traghettato non può spingersi oltre, abbandoniamola senza rimpianto perché oltre la soglia la parola cessa e ricomincia il canto” (A.Ongaro, “Stelle Rotanti”).

a cura di marco senaldi

*foto in alto: Athos Ongaro, American Dream, 2009, olio su tela, 198×227 cm
[exibart]

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