“Mom, am I a barbarian?”:una domanda di bruciante attualità in questi giorni, dove gli scontri tra poteri forti e popolazioni infiammate dal desiderio di libertà si susseguono sulle rive del Mediterraneo. Così il titolo della 13° Biennale di Istanbul, scelto da Fulya Erdenci, curatrice di lungo corso specializzata in Arte Pubblica, appare non solo calzante, ma anche profetico.
Disseminata in cinque sedi diverse, improntata sull’analisi della complessa e spesso contraddittoria relazione tra arte e città, opera e contesto sociale, utopia e denuncia, desiderio e protesta, la rassegna riunisce novanta artisti, suddivisi in spazi espositivi dalle caratteristiche diverse: si passa da Antrepo, ex magazzino portuale all’affascinante scuola elementare greca fino a tre spazi privati: Arter, Salt Beyoglu e 5533. «Non pensavo di allestire la biennale in gallerie private – spiega la curatrice – ma dopo l’occupazione di Gezi Parc lo scorso maggio ho voluto, e dovuto, rinunciare ai 14 progetti pubblici sparsi in diversi luoghi della città e concentrarli in questi spazi, che per la prima volta ospitano una mostra pubblica e completamente gratuita».
Un elemento non da poco per capire come la Erdenci abbia sovvertito completamente le regole della rassegna, che in passato aveva tratto dalla vendita dei biglietti il 20 per cento dell’intero budget, circa due milioni di euro. La Erdenci li ha recuperati grazie a mecenati e sponsors, dopo aver rinunciato ad ogni spesa superflua. «Non voglio che il visitatore sia costretto a consumare la visita di corsa perché ha pagato un biglietto, ma intendo metterlo nella condizione di tornare tranquillamente a rivedere le opere con calma, e fare sì che questa Biennale si trasformi in un’esperienza».
L’itinerario comincia negli spazi di Antrepo, intorno a tre “piazze” dedicate all’analisi del rapporto tra città e opera d’arte, introdotto da alcune esperienze che risalgono agli anni Settanta, dalle performance dell’Accademia Ruchu a Varsavia nel 1973 ai tagli negli edifici di Gordon Matta Clark alle performance antropologiche sulla conservazione delle opere pubbliche suggerite dalla gente comune condotte a New York da Mierle Laderman Ukeles. A partire da queste premesse, la mostra oscilla tra opere poetiche e denunce sociali: tra le prime spicca l’installazione della brasiliana Fernanda Gomez, realizzata soltanto con chiodi, elastici, bicchieri ed altri materiali trovati durante il suo soggiorno ad Istanbul, la scultura del messicano Gonzalo Lebrija Lamento, con il calco di un uomo di piccole dimensioni appoggiato ad un pilastro di cemento, l’architettura di luci e ombre dello studio di design Rietveld Landscape, Seasons la capanna in legno costruita nella giungla dal brasiliano Cadu per vivere in totale solitudine nella natura, oltre a Il Castello, muro di mattoni costruito dal messicano Jorge Mendez Blake sopra un edizione economica del Castello di Kafka.
Se i sudamericani tendono a leggere questa problematica in termini poetici e paradossali, le risposte più vibranti arrivano da opere come le performance urbane dell’egiziana Amal Kenawy, le drammatiche fotografie intitolate Distorted e scattate dal palestinese Hanna Farah Kufr Birim sul luogo dove sorgeva il suo villaggio natale distrutto dalle bombe, senza dimenticare due video: Los Encargados di Jorge Galindo e Santiago Sierra, con una processione di mercedes nere che trasportano sul tetto i ritratti su tela del re Juan Carlos insieme ai sei primi ministri dell’epoca postfranchista, responsabili della crisi economica spagnola, e Wonderland, videoclip del turco Halil Altinder, con una protesta contro l’urbanizzazione selvaggia di Istanbul in versione rap.
Nei suggestivi ambienti della scuola greca, chiusa definitivamente solo pochi anni fa, la mostra è allestita in maniera impeccabile, con una ventina di opere legate al tema dell’educazione e dell’insegnamento. Toccante il video della svedese Annika Eriksson, che racconta Istanbul vista dai cani randagi, nostalgiche e poetiche le fotografie dell’egiziano Basim Magdy nonché la biblioteca allestita da Elmgreen & Dragset, dove una ventina di ragazzi sono invitati a turno a scrivere il proprio diario. Interessante la ricerca dell’olandese Falke Pisano sulla storia del corpo in crisi nel corso del Ventesimo Secolo, emozionate il documentario etno-fiction dell’antropologo francese Jean Rouch in una comunità tribale del Ghana e l’opera di Rossella Biscotti The Prison of Santo Stefano, che analizza la storia del carcere dell’isola di Santo Stefano, dove sono stati rinchiusi solo prigionieri politici comunisti ed anarchici. Ma una delle opere più notevoli della biennale rimane Material Inconstancy, la performance del messicano Hector Zamora, con 35 operai che si lanciano mattoni per dieci minuti all’interno della facoltà di Architettura di Istanbul. Un messaggio che unisce denuncia e gioco, protesta e movimento per far capire la forza visionaria degli artisti, i nuovi barbari di oggi, capaci di sovvertire le regole del capitalismo attraverso opere che aprono la strada a nuovi spazi di libertà.
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la vera barbarie è il sistema onto-sociale capitalista,ma chi crede ingenuamente di cambiare un assetto sociale-economico che in fondo vive nel profondo della loro psiche, anche loro,è solo figlio del sistema ideo-sociale a cui crede di opporsi e criticare.Lo stesso discorso vale per i giornalisti-critici che credono di essere comunisti.....siete dei superficiali ignoranti(prendetela come una offesa se vi pare)perchè nulla avete compreso della realtà in cui vi trovate a vivere (alcuni in modo privilegiato-agiato) OGNI COSA-EVENTO CHE SI MOSTRA NEL COSIDETTO SISTEMA( PADRE, PER LACAN) è FIGLIO DEL PADRE.