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BIENNALE/ L’OPINIONE

di - 3 Maggio 2019
Nota della redazione: Iniziamo oggi un periodo di approfondimento intorno alla Biennale d’Arte di Venezia. Nei prossimi giorni seguiranno interviste, opinioni, racconti in diretta, news, resoconti e opening dalla laguna. Sulle pagine di Exibart e sui nostri social network. E non perdete il nostro nuovo “Venice Special Issue nr° 105”, distribuito davanti alle sedi biennalesche dei Giardini e dell’Arsenale e in cinquanta punti in città!
Il titolo della 58ma Biennale d’arte di Venezia – May You Live in Interesting Times – è un’espressione inglese di una maledizione cinese che nessun cinese hai mai pronunciato. Un falso. Oltre alle spiegazioni fornite dallo stesso curatore Ralph Rugoff, per avere lumi sulla sua origine basta andare su Wikipedia, e dunque non vale la pena insistervi. C’è chi ha inserito la storia della maledizione tra le fake news ante litteram, ma credo sia più interessante considerarla una finzione, che, come molte altre finzioni, ci aiuta ad accedere al mondo reale, a percepirlo e pensarlo nei suoi aspetti non già classificati e a portata di mano. La passione per il reale e per i vari realismi, che sembra aver stregato tanti negli ultimi anni, non deve far dimenticare che il nostro accesso alla realtà è sempre mediato da qualche elemento finzionale, a cominciare dallo stesso linguaggio con cui ci riferiamo alle cose (la parola ‘sangue’ non macchia), ma anche che le finzioni (a cominciare proprio dall’uso che facciamo delle parole per descrivere o stigmatizzare, promettere o insultare, illuminare o ingannare, augurare o maledire…), non sono soltanto parte della nostra effettiva esperienza del mondo, ma possono avere a loro volta conseguenze reali.
Zanele Muholi, Bona, Charlottesville (2015), From The Studio Museum in Harlem
L’ambiguo augurio/maledizione di vivere in tempi ‘interessanti’ – nel senso di tempi inquieti, difficili o travagliati – avrebbe potuto far pensare che Rugoff intendesse riprendere la vena della Biennale del 2015 di Okwui Enwezor –  il curatore nigeriano prematuramente scomparso nel marzo scorso – dedicata a All the World’s Futures, tanto più che la falsa maledizione era stata già ripresa nel titolo dell’autobiografia di uno dei più grandi storici marxisti, Eric Hobsbawm, il cui indice mette sotto gli occhi una ricca mappa del “secolo breve”, con la sua nutrita lista di orrori; e compariva anche in un saggio di una star della filosofia come Slavoj Žižek, Living in the Times of Monsters, che la coniugava per di più a una celebre frase di Gramsci: “il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”; e quest’ultima frase, a sua volta, è comparsa misteriosamente per mesi sui muri di Roma, rivelandosi poi un intervento (intitolato Chiaroscuro, appunto) dell’artista Alfredo Jaar, nell’ambito della mostra del MAXXI La strada. Dove si crea il mondo. Si sbaglierebbe, però, a interpretare il titolo scelto da Rugoff come indice di una nuova Biennale politica e ‘impegnata’, dopo la pausa di quella del 2017 di Christine Macel, la quale non si peritava di invocare un “approccio metafisico all’arte” e un “nuovo umanesimo”.
Credo che le parole di Rugoff, insieme alle sue mostre come direttore della Hayward Gallery, promettano qualcosa di molto più interessante. Subito dopo la sua nomina a curatore di questa Biennale, a chi gli chiedeva quale sarebbe stato il tema della mostra, Rugoff rispondeva che il problema era “pensare il formato e la struttura, non il tema”. Un’affermazione che già sembrava escludere la tentazione di piegare e ridurre, ancora una volta, le pratiche artistiche a rituali illustrazioni, magari ben intenzionate, del ‘(contro)pensiero unico’, dissidente e ‘antagonista’, ma ormai prevedibile e patinato, speculare al ‘pensiero unico’ liberista dominante.
Ma se i “tempi interessanti” non sono il suo “tema”, perché farne il titolo della mostra? Una mostra d’arte non può certo sottrarsi a una riflessione sullo stato del mondo e su come ne facciamo esperienza. Che cosa sono, in fondo, le pratiche e le opere cosiddette artistiche, se non tentativi di concentrare, da una prospettiva singolare, in una ‘cosa’ delimitata (una figura, un’azione, un evento, questo spazio o questo tempo) l’indefinita esperienza del mondo nella sua inafferrabile totalità, in cui viviamo quotidianamente senza accorgercene – e, però, facendocene accorgere?
Alex Da Corte, Rubber Pencil Devil, 2018
Rugoff si è affrettato a precisare che “l’arte non esercita le sue forze nel dominio della politica. Non può, per esempio, contrastare l’ascesa dei movimenti nazionalisti e dei governi autoritari in diverse parti del mondo, né può alleviare il tragico destino delle persone costrette a migrare”. Un’arte che avanzasse queste pretese sarebbe forse più indecente che ingenua. Ma non per questo l’arte è priva di ogni funzione sociale, che il critico americano Walter Benn Michaels ha espresso bene nell’introduzione al suo libro più recente (The Beauty of a Social Problem. Photography, Autonomy, Economy, 2015): “Se ciò che vogliamo è un cambiamento delle nostre politiche (policies), è difficile che ciò venga dall’arte, e specialmente non da un’arte formalmente ambiziosa come quella descritta qui. Ma se quel che vogliamo è una visione delle strutture che producono sia le politiche che abbiamo, sia il desiderio di politiche alternative, l’arte è quasi l’unico posto in cui trovarla”.
Che i nostri siano tempi ‘interessanti’, e che preludano forse a tempi non meno ‘interessanti’ di quelli del ‘secolo breve’, è fuor di dubbio, a cominciare da alcuni paradossi: è una giovane ragazza con la sindrome di Asperger (la cui caratteristica principale è la difficoltà a comunicare socialmente) che riesce a comunicare al mondo l’urgenza della crisi climatica; sono i nuovi paranoici sovranismi a mostrarci che la sovranità degli stati è davvero finita e che non saranno certo i muri a segnare i nuovi confini; sono gli esaltatori dei nuovi confini che rilanciano il riarmo nucleare, che confini non conosce; sono le riunioni mondiali a difesa dei valori famigliari ‘tradizionali’ a gettare nuova luce sui lividi abusi sessuali del clero o sul valore assegnato alle vite umane da chi si dichiara paladino di quei valori e si adopera affinché le famiglie dei migranti vengano, in più di un senso, smembrate… Tempi davvero interessanti.

Lara Favaretto, Simple Couples, 2009, Car wash brushes, iron slabs, motors, electrical boxes, wires, site specific installation, Courtesy Rennie Collection, Vancouver. Photo: Blaine Campbell

Ma la parola ‘interesse’ non si esaurisce in questi e altri paradossi: inter-esse è ‘essere-tra’, ‘prendere parte alle cose degli altri’. Interesse homines, sottolineava Hannah Arendt, è vivere, e vivere è stare-con-gli altri in un mondo condiviso la cui apparenza (cioè il suo modo di essere accessibile a noi) è il cuore della vita politica. Vorrei interpretare allora la maledizione pseudo-cinese come una presa di posizione sull’arte (opere e pratiche) da parte di Rugoff, confermata retrospettivamente dalle belle mostre da lui curate o promosse finora come direttore della Hayward: The Painting of Modern Life, che affrontava la “fotografizzazione” della pittura, la splendida Psycho Buildings: Artists Take On Architecture, che esplorava la complessità della percezione dello spazio (architettonico), come d’altra parte la recente e affascinante Space Shifters; ma anche la Alternative Guide to the Universe, ancora sui poteri immaginativo-percettivi di vedere il mondo fuori dalle categorie dei ‘normali’, o The Infinite Mix, incentrata sulle corrispondenze di modalità percettivo-immaginative visuali e sonore. Ciascuna di queste mostre attesta innanzitutto, dopo decenni di angusta anti-aesthetics, un ritorno all’esperienza estetica in tutta la sua ricchezza, intesa proprio come l’opportunità di esperire un interesse di secondo grado, un interesse per l’inter-esse homines, un interesse che è stato chiamato, con una celebre formula – quasi sempre fraintesa – ‘disinteressato’: cioè interessato-non a questo o a quello, ma al nostro stesso interesse nella sua indefinita totalità. Rugoff lo dice con parole persuasive: “La Biennale del 2019 aspira idealmente a mostrare che quel che è più importante di una mostra non quel che viene esibito, ma come il pubblico potrà usare la propria esperienza della mostra più tardi, per affrontare le realtà quotidiane da punti di vista espansi e con nuove energie”.
Stefano Velotti

Insegna Estetica a l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Ha insegnato a lungo negli Stati Uniti ed è docente dell’Istituto Freudiano di Roma. Oltre ai temi classici dell’estetica analitica e continentale, è interessato ai problemi filosofici e politici connessi all’arte contemporanea e ai nuovi media. Tra le sue pubblicazioni in volume, La filosofia e le arti. Sentire, pensare, immaginare, Laterza, 2012; Estetica analitica. Un breviario critico, Aesthetica, 2008; Storia filosofica dell'ignoranza, Laterza, 2003; Il ‘non so che’, (con P. D’Angelo), Aesthetica, 1997; Sapienti e bestioni, Pratiche, 1995; Adolf Loos, De Donato, 1988.

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