In Italia non è mai successo, e nel mondo accade raramente che una mostra di un artista contemporaneo venga proposta da uno spazio espositivo istituzionale alla stregua di una rassegna dedicata ad un maestro del passato. Per intenderci, come se un’antologica di Jeff Koons o Anish Kapoor fosse trattata con lo stesso rigore filologico e scientifico di una retrospettiva di Rembrandt o Vermeer. Questione di coraggio? Paura di non essere in grado di attirare le grandi masse? Timore di non essere capaci di rendere accessibile il pensiero dei contemporanei, troppo spesso considerati lontani dal grado di comprensibilità del grande pubblico? Probabilmente queste e altre preoccupazioni hanno fatto sì che le istituzioni culturali tricolori non puntassero su esposizioni di Giulio Paolini o Maurizio Cattelan, destinandoli ad essere imprigionati nelle sale dei musei votati al contemporaneo e quindi pronti a rispondere ai gusti di un’audience specialistica, senza mai sfondare il muro degli “addetti ai lavori”. Ma basta fare un salto oltrefrontiera per ammirare l’antologica che il Bozar di Bruxelles ha dedicato all’artista belga Michael Borremans, uno dei più interessanti e complessi pittori viventi, per capire quanto la mancanza di coraggio e di visione abbia penalizzato in maniera forse irreversibile la capacità di emozionare il grande pubblico con le espressioni migliori dell’arte d’oggi.
Difficile immaginare una mostra migliore di questa, che viene proposta insieme ad una retrospettiva del pittore del Seicento Francisco Zurbaran, in modo da collegare la silenziosa visionarietà dell’artista spagnolo con il mondo metafisico e surreale del fiammingo, nato nel 1963 poco lontano da Gand. Allestita in maniera esemplare, la rassegna è divisa in due parti, che rispecchiano i due filoni della ricerca di Borremans: le prime sale riuniscono i suoi dipinti, rari e preziosi, presentati come le opere di un maestro del passato, mentre nella seconda parte si possono ammirare alcuni video e soprattutto i disegni, avvolti da una semioscurità che ne aumenta le componenti esoteriche e misteriose. Già dalle prime opere, dominate da volti e figure caratterizzati da sguardi obliqui e melanconici, la pittura di Borremans è frutto di una tecnica straordinaria e quasi maniacale, abbinata ad una profonda conoscenza della storia dell’arte, ed in particolare dell’opera di maestri del pennello come Diego Velasquez, Edgard Degas e Edouard Manet.
Un virtuosismo maniacale e ossessivo che ha portato l’artista a costruire un immaginario molto personale, abitato da figure senza tempo né storia, colte in pose immobili e statuarie, che emergono da sfondi monocromatici, attraversati da piani inclinati, in un modo tale da tagliare busti, colli e gambe, mentre i volti, sofferti e ieratici, sono spesso resi asettici e impersonali da maschere sottili e aderenti ai tratti del volto, tanto da rivelarsi solamente ad uno sguardo attento e concentrato. A queste modalità si aggiunge un utilizzo del tutto personale della luce, con bagliori inattesi che rivelano incarnati di nuche, orecchie o mani, evitando accuratamente sguardi o tessuti, per eliminare facili concessioni ad un uso eccessivo e scenografico della velatura, senza indulgere a quei giochi di trasparenze tipiche della pittura fiamminga.
Attori consumati o persone qualunque? Icone senza tempo o spettatori di drammi quotidiani? Forti di una presenza fondata sull’assenza, i protagonisti dei dipinti di Borremans discendono da Caravaggio quanto da Chardin, hanno la fissità di Magritte e Delvaux e nel contempo la perversa spregiudicatezza di Degas e Caillebotte. Profondamente antichi ma straordinariamente contemporanei, capaci di fondere la consapevolezza del passato e la dimensione concettuale della modernità. «Per me la pittura significa mostrare l’essenza di un’immagine. Non mi piace fare dipinti complessi, mi limito ad una sola idea», dichiara Borremans, e questa frase può essere applicata in maniera esemplare ad un’opera come The angel (2013) , emblematica dell’intera mostra: il ritratto di grandi dimensioni di una giovane donna a figura intera avvolta da un abito rosa, con il volto oscurato da una maschera marrone scuro e le braccia abbandonate, in segno di remissione.
«Pensieri e domande sembrano erompere come scintille elettriche che si trasformano in parole come tristezza, unità, diversità, il tempo in cui viviamo, il miscuglio di culture, età e sessi», suggerisce David Lynch, una delle tante personalità chiamate a commentare le singole opere riprodotte nello splendido catalogo, pubblicato da Hatje Cantz. The Angel può essere accostato a The Whistler (2009), il ragazzo nudo a mezzo busto che tiene in bocca uno specchio, in un gesto insieme perverso e straniante, come tutta l’arte di Borremans. Senza parlare dei disegni, piccoli fogli di ispirazione leonardesca dove l’artista ci introduce in un mondo di ossessioni ripetute al parossismo, tra studi, bozzetti e interpretazioni di soggetti già presenti nei dipinti che qui si caricano di interpretazioni diverse, ancora più inquietanti.
Un viaggio dentro la pittura di tutti i tempi che trova la sua degna conclusione nel video The Storm (2006), che mostra tre marinai neri in uniformi bianche seduti all’interno di una stiva o di una cabina, dove ogni loro movimento trasforma la scena in un incubo psichedelico di impressionante suggestione. Diceva Giorgio De Chirico che si può innovare la pittura senza distruggere la sua storia passata. Davanti ai capolavori di Borremans, dobbiamo ammettere che aveva ragione.