Categorie: altrecittà

Disegni filosofici

di - 18 Ottobre 2004

Malgrado le vicissitudini di una disciplina che nella modernità sembra essere esautorata dalle scienze esatte, la filosofia non è morta ed anzi dimostra -scendendo in piazza e facendo numeri da stadio- che il suo dettato può ancora illuminare il cammino accidentato di un’umanità in cerca di nuovi criteri per giudicare un mondo in costante mutamento.
Le 100.000 presenze della quarta edizione del Festival Filosofia di Modena, 25.000 in più dello scorso anno, sono il segno di un crescente consenso e di una partecipazione che ha il sapore di una rinascita possibile: quella di un ritorno della trasmissione culturale nello spazio pubblico della città, in quella agorà (la piazza fisica, locale ed anti-virtuale) che nella polis greca ha visto crescere la democrazia.
In questo spazio condiviso si è ripensato il mondo, tema dell’edizione. L’accezione con cui un termine semplice ed universale come mondo viene comunemente considerato racchiude in sé una somma di sensi storici, antichi e dimenticati, che la filosofia riporta in luce, usando l’etimologia come strumento capace di svelare la concettualità che influisce dal profondo sulla cultura e sulle azioni. In un’epoca segnata dal concetto di globalizzazione ripensare il mondo significa distinguerlo, come fa Massimo Cacciari, dall’idea di globo terracqueo, ovvero dalla superficie mobile e scivolosa di un pianeta che è stato sottomesso al potere terreno man mano che il suo aspetto visivo, geografico, veniva segnato, tracciato e visualizzato su mappe. Figurare il mondo in unica carta, diceva Giacomo Leopardi, è il senso del sapere umano, che ha la sua finalità nel dominio delle cose e del mondo. Per questa idea moderna di mondo -che definisce un globo privo di profondità trasformato in dominio privato della specie umana- le due categorie artistiche ed estetiche della visione e del disegno assumono il senso di una corrispondenza tra la metafisica e l’estetica (intesa come filosofia della sensibilità) che fonda l’idea moderna del mondo.

Tutt’altra cosa è il mondo che -secondo l’etimologia greca di cosmos e quella latina di mundus– risulta come ordinamento di due dimensioni della profondità, il mondo di sottoterra e quello della volta stellare, incontro fra i due regni del divino e del demoniaco che segna il significato che per secoli ha impregnato di sé il pensiero. E che -nella modernità, nella secolarizzazione dei principi religiosi- ad oggi sembra venuto meno.
Questa perdita è apparente, come si può costatare nella nuova conflittualità che si sta definendo come belligeranza fra mondi, civiltà, sistemi incommensurabili. Se tra di essi non vi è dunque mediazione possibile, e nessuna filosofia può più ridurli ad uno (come hanno voluto fare gli esploratori rinascimentali con le loro carte geografiche, i loro mondi disegnati), allora occorre ripensare il mondo come un insieme di sistemi chiusi ed autosufficienti, in costante evoluzione interna e non più colonizzabili culturalmente. Occorre ripensare il mondo come qualcosa di non definitivamente globalizzabile.

Cosa che la tecnologia non ci permette di pensare. I suoi strumenti, come ad esempio i satelliti, proprio mentre ci aiutano nel sondare grandi fenomeni planetari, come le previsioni meteo, implicitamente c’impongono la loro visione globalizzante che impedisce di comprendere a fondo i macrofenomeni che fotografa. Dai flussi migratori, ai conflitti, alle mutazioni identitarie dei luoghi. Lo sguardo, e qui si entra nel vivo delle implicazioni metafisiche dell’estetica, impostoci dalla tecnologia avanzata è uno sguardo freddo, zenitale, distante, inespressivo, indifferente e totalizzante. La sua impersonalità è una pretesa d’obiettività, il suo non essere soggettivo è visto come garanzia d’oggettività. Ma cosa può dirci una foto satellitare dell’affondamento di una nave di clandestini o della situazione dei territori occupati di Cisgiordania? Ed è solo un esempio. E, ancora prima, cosa ci posson dire i satelliti ed i super computer a riguardo di un fenomeno mondiale, ma glocale, come la metropolizzazione della terra? Oggi il 50% della popolazione abita in città. Esistono 22 megalopoli con più di 8 milioni di abitanti ciascuna e le curve grafiche indicano picchi verso l’alto in breve tempo. I centri urbani stanno perdendo la dimensione cittadina, fatta di un centro che governa la periferia, a favore di e una proliferazione difficile da ordinare proprio perché è finora impossibile da concettualizzare e quindi comprendere a fondo.

Quale sguardo allora ci permetterà di comprendere un fenomeno tanto complesso di cui ora mancano le parole ed i concetti per dirlo? Stefano Boeri, urbanista, docente e direttore della storica rivista Domus, propone di tornare ad una visione dal basso, orizzontale, capace di sfruttare la polifonia di voci, la relazione tra realtà diverse opposte o in conflitto che fanno parte di un unico fenomeno. E dove lo fa? Ma nel campo dell’arte contemporanea naturalmente, a Documenta, nelle Biennali ed in decine di mostre in cui Multiplicity -gruppo da lui costituito con altri artisti, architetti, fotografi, sociologi ed antropologi- mostra i propri progetti di ricerca complessa, ibridata e multidisciplinare, sostenuta dalla convinzione che l’oggettività (il punto di vista unico ed impersonale) è un miraggio, un’astrazione mistificatoria e manipolabile.
Multiplicity ritorna al racconto, lo integra con analisi, schemi e concettualizzazioni visive per aprire, nello spazio metafisico e percettivo dell’arte di oggi, un capitolo filosofico che indaga la natura degli eventi attraverso uno sguardo vicino e partecipato, che non significa schierato a priori. Uno sguardo che si compone di una polifonia di prospettive, tagli visivi, inquadrature capaci di introdurre nel fenomeno. Questo pensiero sta offrendo una idea di metodologia assai interessante. Da qui il proprio successo internazionale.
In un mondo il cui futuro si è aperto a nuove incertezze, la Storia sembra voler fare tutt’altro che finire, bloccandosi in quella età dell’oro permanente che nel 1991, a ridosso della caduta del blocco sovietico, il filosofo americano Francis Fukuyama indicava come un misto di libero mercato, diritti umani e democrazia. Per pensare, allora, la vita del mondo ed il futuro della sua Storia la filosofia è chiamata in piazza a Modena, Carpi e Sassuolo. Come se uscire dalle accademie e dalle biblioteche per tornare nello spazio della civitas fosse il sintomo di una riconosciuta nuova utilità di una disciplina che offre fatiche e difficoltà ai suoi appassionati, ma che si distingue dalle risposte facili e preconfezionate di quella piazza virtuale e telecomandata (in tutti i sensi) che risponde al nome di tele-visione. Quando la tele-visione non basta più a spiegarci il mondo, occorre tornare alla filo-sofia, a questo amore per la conoscenza nel quale l’arte contemporanea, malgrado le sue crisi, ha ancora molto da dire. E da far vedere.

nicola davide angerame

[exibart]



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