Lida Abdul (Kabul, Afghanistan, 1973) vince il Premio Pino Pascali 2006. Dopo nove anni, il riconoscimento –attribuito alternativamente a un critico e a un artista– va ad uno straniero. La giuria, costituita da Rosalba Branà, Lia De Venere e Lucia Spadano, lo assegna ad una donna incarnazione degli opposti: misteriosa orientale nei lineamenti, occidentale à la page nel look. Un’esule privilegiata -dopo un lungo peregrinare con la famiglia tra Germania, India e Stati Uniti– laureata in scienze politiche e filosofia e dotata di doppio passaporto, afgano e americano. Questo le permette uno sguardo metaforicamente strabico, distaccato in quanto emancipata cittadina del mondo ma empatico da esule afgana, perché “la storia dell’Afghanistan deve essere fatta dagli afgani”. Un popolo da sempre in guerra: invasione sovietica negli anni ’70, laceranti contrasti etnici dopo, oppressione reazionaria talebana e arrogante intervento americano, adesso.
Nel Museo Pino Pascali –struttura ormai inadeguata, per la quale è stato stanziato un consistente finanziamento regionale per permetterne l’ammodernamento– tre video ed alcuni still, trasposizione della recente personale della Abdul da Giorgio Persano a Torino. Protagonisti assoluti, il peso dell’assenza e l’attenzione per la ritualità. A fare da scenario landscape aridi e desolati, dove il silenzio muto delle macerie diventa il palcoscenico per gesti semplici e popolari.
In Dome un bambino gira su sé stesso al centro di un edificio a cupola sventrato: il girotondo, pratica giocosa e insieme ossessiva, accentua il senso di perdita di orientamento più che di abbandono spensierato, accompagnato dal rombo (immaginato) dell’aviazione militare.
Struggente, la scena esaspera solitudine e voglia di straniamento del piccolo. Intreccio di storia e post-storia, documentazione e simbologia, il video Clapping with stones, in cui il rituale del battito corale delle pietre riecheggia la devastante “lapidazione” che ha mutilato Bamiyam dei giganteschi buddah, vetusti tutori della Via della Seta.
Ma poesia assoluta è nel corto White house: se una più famosa Casa Bianca è intatta ed orgogliosa, qui restano solo macerie, rese candide dalla paziente opera di ridipintura di un’esile figura femminile in nero che spennella anche il fantasma di un uomo, al cospetto di un gregge di pecore, ombra della pastorizia, rustica fonte di sostentamento del paese. Il bianco non è qui il colore del lutto, ma porta aperta alla speranza. Scenari e azioni che, come osservato dal governatore della Regione Puglia Nichi Vendola, ricordano i bianchi paesi della Valle d’Itria, anticamente ripassati periodicamente di calce purificatrice.
Il rinnovamento: una missione che l’artista “nomade” -come lei ama definirsi, con cinesi e cubani– promuove, giustapponendo lo spazio della politica a quello del “sogno ad occhi aperti”, trasferendo qua e là quel “mondo portatile” che è proprio del rifugiato, proponendo il nuovo concetto di “post-identità” e “post-nazione” nel magma informe di etnie e culture.
Una missione socio-culturale e non una moda per Lida Abdul, che si appella così al mondo intero: “L’Afghanistan è la news del momento, un soggetto adatto a documentari e reportage, ma dove sono i sogni collettivi degli afgani?”
giusy caroppo
mostra visitata il 7 luglio 2006
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