Grandi occhi scuri, viso affilato, barba lunga e capelli spettinati, aria bohémienne. Sembra il prototipo dell’eroe romantico quello che emerge nella lunga serie di autoritratti che dipinse lungo tutta la sua vita, quasi un testamento spirituale. Così come romantica fu la sua scomparsa, avvenuta nel 1873 tra i flutti del fiume Po dove amava fare lunghe nuotate, il cadavere trascinato dalla corrente e ripescato giorni dopo come quello di Percy Bysshe Shelley, annegato cinquant’anni prima tra Lerici e Viareggio.
Certo tra i tanti pittori del nostro maltrattato Ottocento –fatti salvi Macchiaioli e poc’altro –, Giovanni Carnovali detto il Piccio (piccolo, per la sua precocità, in lumbard) è uno dei meno popolari. E a torto, perché pur non essendo un “sovversivo” –ché anzi la tradizione, specie lombarda, è parte fondamentale della sua poetica-, fu prodigioso disegnatore e geniale ritrattista, capace di confrontarsi con le sperimentazioni più moderne in ambito europeo e di anticipare, a livello di soluzioni formali, scapigliati, divisionisti e futuristi. Non troppo osannato in vita, dovette attendere però parecchio prima di essere rivalutato. Ma quando accadde, lo fu da Previati, Carrà e, soprattutto, de Chirico, che lo vide addirittura superiore a Delacroix.
La mostra cremonese, curata da Fernando Mazzocca al culmine di un progetto avviato in occasione del bicentenario della nascita dell’artista (Montegrino Valtravaglia, nel Varesotto, 1804), ripercorre attraverso quasi 150 tra dipinti, disegni e bozzetti suddivisi in nove sezioni la carriera del Piccio proponendo anche un interessante confronto con pittori a lui affini come l’Appiani, il Trécourt, il Faruffini e il maestro Giuseppe Diotti, presso cui aveva studiato alla Carrara di Bergamo.
Si spazia dagli autoritratti –così abbondanti da accostarlo a Rembrandt- alla pittura sacra e storica, dai piccoli dipinti caratterizzati da audace sperimentalismo cromatico al realismo spinto dei ritratti di personalità bergamasche –come quello della contessa Anastasia Spini, dissacrante e ironico nella riproduzione impietosa della vecchia zitella in tutta la sua bruttezza-, fino al naturalismo panteistico dei nudi e dei paesaggi riprodotti en plein air che tradiscono i primi l’influenza di Giorgione, Tiziano, Boucher e Fragonard, i secondi dei pittori di Barbizon e in certi tratti addirittura di Turner.
Il meglio di sé, però, Piccio lo diede forse nei ritratti degli ultimi anni, in cui, superata la virtuosistica ricerca della somiglianza, prevale la volontà di esprimere, attraverso una nuova tecnica costruttiva a macchie di colore giustapposte, in “dissolvenza”, la passione e il carattere dell’effigiato. Le Flore, i ritratti di donne e di bambini diventano così altrettante occasioni per scavare nell’intimo dei personaggi, metterne a nudo ora l’ironia, ora la fragilità, ora il carattere trasognato e malinconico, gettando semi che sarebbero stati raccolti da Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni.
Tra i pregi della mostra (oltre alla
elena percivaldi
mostra visitata il 25 marzo 2007
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