Carlo Michele Schirinzi (Acquarica del Capo, Lecce, 1974;
vive a Lecce), fotografo e videomaker, ha raggiunto la notorietà nazionale
grazie alla presenza al
Torino Film Festival, rivelandosi ancora una volta
segnato da quella cifra stilistica che lo rende un artista apparentemente di
nicchia.
La “
coltre” fisica e psicologica che caratterizza i suoi lavori
mostra una cura “
autarchica”, che definisce il processo di creazione come “
eradicato” da retroscena arcani e arcaici,
per essere riseminato in un background dai contorni più reali e subliminali a
un tempo.
Una ricerca sintetizzata perfettamente dalla personale
intitolata
Tangenziale Sud, dedicata all’investimento mortale di Kemy, una
prostituta nigeriana. Il video proiettato nella saletta al primo piano della galleria,
Prospettiva di fuga, sovrappone due realtà: quella dell’esistenza da cui la giovane donna
fugge, incarnata da una scia di schiuma lasciata dal motoscafo, e quella della “
terra
promessa”,
divenuta una lunga linea continua sull’asfalto, metaforica allusione al destino
di morte segnato sulla strada. Il brano
Abat-jour, per la voce di Luciano Vigili,
rieditato con disturbi “
in acqua” da Stefano Urkuma De Santis, fa da sfondo
all’inquadratura a cerchio, in cui le due linee si sovrappongono, alternandosi
fra giorno e notte.
Le situazioni di disagio e degrado
esistenziale sono analogamente soggetto di
Arca di Concentramento:
“La Storia s’annulla sotto un
faro che riesuma due corpi durante un tentativo d’avvinghiamento. Un’Arca
dedicata ai turisti forzati dei naufragi storici”,
dice lo stesso Schirinzi.
Anche in questo video è l’inatteso
twist (
Selene cantata da Modugno) a mantenere
una tensione drammatica, insieme ai salti di fotogramma e agli inceppamenti
audiovisivi.
In mostra anche il polittico in otto elementi
Dissolvenza
in chiusura,
realizzato con la tipica tecnica di Schirinzi:
stampa theta da negativo trattato
manualmente. Cita
La morte della Vergine di
Caravaggio, facendone gradualmente sfumare alcuni
particolari, fino al bianco accecante del fondo.
Ma è il senso d’“incompiuto” a trovare perfetta conferma
nella
video-performance
Chant, durante
la quale frammenti del film di
Jean Genet Un chant d’amour (1950) vengono oscurati
manualmente manipolando l’obiettivo del proiettore, simulando un occhio che
spia dalla serratura due detenuti che tentano invano di amarsi attraverso le
sbarre che li separano. L’unico contatto possibile è respirare a vicenda il
fumo di una sigaretta, soffiato attraverso una cannuccia infilata in una
piccola apertura della parete.
Nel film originale, il
voyeur è una guardia carceraria che si
eccita nell’osservare. Ma qui, eliminata questa figura e rimontata la scena,
l’artista attribuisce al pubblico il ruolo del secondino, innescando così un
doppio processo di fruizione, esaltato dall’intervento in “tempo reale” che di
volta in volta oscura o svela le scene.
Di nuovo si racconta di un rapporto mancato, di un
desiderio mozzato. E l’impotenza dell’osservatore a modificare (nella finzione)
la vita altrui chiude il cerchio su Kemy, che non è riuscita a modificare il proprio
“film”.