“…Carissimo amico, non ho mai lavorato per danaro, ma il mio lavoro l’ho considerato cosa importante, ci ho sempre creduto, perché il tempo, in questo campo, ti dà ragione se ce l’hai. Bisogna lavorare con molta calma e cognizione sfruttando al massimo la manualità che uno si è conquistata e affinata con il tempo. Questo discorso è un punto molto importante nella vita”. Così s’esprimeva Umberto Peschi rivolgendosi per lettera a un amico artista nel Marzo del 1992, pochi mesi prima della morte, e tale concetto –più che altro una fede- costituiva per lui la verifica di una regola di lavoro e di un credo su cui aveva conformato la propria vita di uomo sociale, creativo, morale.
Il tempo difenderà le sue ragioni e dirà poi del valore delle sue creazioni. Ad esperimento di ciò, c’era stata da parte sua quasi un’assenza, una presa di distanza da tutti i meccanismi e gli espedienti pubblicitari e di promozione d’immagine che i tempi, all’ora come oggi avrebbero suggerito. Le opere e solo le opere costituiscono il lascito di un artista: questa la sua convinzione profonda. Sebbene, appena finito un lavoro lo considerasse “archiviato” anche affettivamente, in casa si circondava di opere sue o di amici, quelle che rappresentavano parti vive della propria vicenda artistica.
La grande retrospettiva che il Comune di Macerata gli dedica è l’emblematico riscontro delle speranze che Peschi aveva coltivato nel suo intimo: quasi una risposta che la sua terra ha voluto dargli in contraccambio della passione e del magistero culturale espressi a favore della comunità in tanti anni. La mostra, a cura di Paola Ballesi e Nino Ricci, allinea più di cento sculture, dal 1930 al 1992, la maggior parte in legno, che dell’artista fu “materiale d’elezione”. Non manca un cospicuo numero di disegni e un’interessante raccolta di fotografie e documenti.
Dopo la campagna di Etiopia, Peschi entrò a far parte con suo fratello Alberto del Gruppo futurista maceratese, intitolato a Boccioni. Trasferitosi a Roma, nel 1937, si unì a Monachesi e Bruno Tano, con i quali condivise l’impegno culturale ed artistico nello studio di via delle Colonnette. Qui si rese conto di quanto potessero essere ampi per un giovane gli orizzonti dell’arte. L’esordio espositivo presso la casa d’Arte Bragaglia, lo fece entrare in contatto con i vari gruppi futuristi della capitale e con il fondatore del movimento Filippo Tommaso Marinetti. Diventò inoltre amico personale di Prampolini, Balla, Depero.
Dal 1939 al 1959 partecipò a tutte le Quadriennali di Roma, dalla III alla VII e fu presente, nel 1940, alla XXII edizione della Biennale di Venezia (dove espose il notissimo Aeroritratto d’aviatore che lo scenografo Dante Ferretti utilizzerà nel ‘75 come metafora di un’epoca nella scenografia del film Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini) e nel 1942 anche alla successiva edizione della Biennale, confermando maestrìa tecnica non comune unita a una notevole capacità di evocazione poetica.
L’apertura verso queste nuove esperienze lo portò a solidarizzare con Fiamma Vigo, artista e gallerista proiettata verso ciò che di nuovo si prospettava nell’arte, e con le iniziative espositive ed editoriali della Galleria Numero. Dal 1953 al 1975, ebbe un’intensa partecipazione alle esposizioni di Numero e frequentò artisti di tendenza astratta, consolidando le motivazioni della propria scelta. Tra i suoi amici e corrispondenti più vicini ed illustri, oltre al già citato Prampolini e ad amici marchigiani come Monachesi, Tulli, Licini, ci furono Antonio Calderara, Giovanni Korompay, Renzo Ghiozzi (Zoren), Pia Pizzo, Edgardo Mannucci, Gerardo Dottori, Michelangelo Conte, Hsiao Chin, Kengiro Azuma. Ancora una dimostrazione del fatto che, sebbene insediato stabilmente nella sua Macerata, Peschi continuava ad avere contatti ed amicizie di ambito nazionale ed internazionale.
lucio del gobbo
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