“Un borghese di ventura”. Potrebbe essere questa, mutuata dal titolo di un suo romanzo pubblicato negli anni Settanta, la definizione più attagliata per un personaggio eclettico e sfuggente come Mario Lattes (1923-2001), che a partire dal mondo ormai perduto di una certa borghesia intellettuale torinese, con profonde radici ebraiche, ha edificato il proprio singolare universo narrativo e immaginale. Animatore culturale di rilievo sin dai primi anni Cinquanta, quando fonda la rivista Questioni e, attraverso la sala espositiva annessa alla sede della casa editrice di cui è a capo, introduce in Italia artisti del calibro di Alfred Manessier e Fritz Winter, Lattes persegue per lungo tempo una carriera parallela di scrittore e pittore, con esiti, in entrambi i casi, di significativa indipendenza. Avvicinatosi alla pittura da autodidatta, si stacca presto dalle primitive influenze della lezione cézanniana per sviluppare un linguaggio di forte espressività almeno idealmente avvicinabile, sullo sfondo dell’angusto casoratismo a Torino allora dominante, a quello di un altro fiero inclassificabile come Luigi Spazzapan, mentre più in generale un sicuro riferimento va fatto al grottesco James Ensor.
La drammaticità dell’arte di Lattes è retta dall’uso intenso del colore e svolta intorno alla costante presenza di un elemento figurativo: si tratta di figure, quando umane, gettate in fondi notturni o nascoste dietro una maschera sociale e religiosa (quella di un inquietante cardinale, oppure di un consunto rabbino), ma assai ampio è anche il campionario di quelle inanimate, a partire dalle ricorrenti marionette. A distanza di quattro anni dalla morte, una rassegna di ben novanta opere divise tra pittura e grafica racconta -nello spazio assai suggestivo della Fondazione Peano di Cuneo, un villino ottocentesco circondato da un giardino di piante officinali dove sono adesso raccolte opere di scultura contemporanea- lo sviluppo dell’immaginario di un artista irrequieto che, a poco a poco, viene sempre più a concentrarsi su elementi dal forte simbolismo: sbilenchi teatrini in corso di disfacimento visivo, inquietanti marionette contorte.
Ora solitarie, ora inserite in scene di delitto con un ghigno malvagio sul volto, le marionette sono in effetti tra le realizzazioni più interessanti di Lattes, metafore di una condizione umana dove si alternano impotenza a malvagità, sul palcoscenico di sulfuree messinscene che non di rado bruciano fino a consumarsi, come ad esempio capita nel notevole Incendio del Regio presente in mostra. Anche quando sono colte in un abbandono all’apparenza più quieto su qualche ripiano di libreria, i fantocci dell’artista non scampano comunque a un’inquietudine sottile e persistente: ci si può ben immaginare dunque che, come capita di leggere nel Castello d’Acqua (l’ultimo romanzo di Lattes, pubblicato postumo nel 2004), spesso -specie la notte- immagini disordinate invadono la marionetta e allora essa spezza la corda, credendo di vivere, e cade”.
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www.fondazionemariolattes.it
luca arnaudo
mostra visitata il 22 ottobre 2005
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