La pittura di Ribera e Velázquez era un lampo di luce sulle pieghe più nascoste del reale. Aveva il potere di catturare l’esistenziale per poi essere inghiottita di nuovo nel buio delle crespe profonde d’una veste sontuosa, delle rughe fitte di un volto. Lo stesso potere di rivelazione, più che di rappresentazione, lo ritroviamo nei realisti spagnoli contemporanei presentati alla galleria Civica di Potenza. Nel potere illuminante della pittura spagnola sta infatti il trait d’union tra la mostra vera e propria e l’esposizione di alcune opere di maestri dell’arte iberica, tra cui lo straordinario Ritratto de torero di Francisco Goya, in una piccola stanza-scrigno. Curata da Laura Gavioli, la mostra espone nella prima sezione le opere del gruppo dei realisti madrileni. Allievi dell’Accademia di Madrid negli anni ‘50, mentre imperava l’estetica informale scoprirono di condividere uno stesso sguardo, solenne e umile, sulla realtà, la stessa attitudine quasi religiosa verso le cose della vita quotidiana: gli strumenti da lavoro, i fiori, i paesaggi, le persone care, gli interni ricreati, di volta in volta, con una capacità di cesello. La cultura accademica, la scelta dei generi tradizionali come il bodegon, il ritratto e il paesaggio, lo studio amorevole degli antichi e dei classici -la spoglia e inquietante traduzione dello stiacciato donatelliano di Julio e Francisco López Hernández (Madrid, 1930; Madrid, 1932) e la scultorea severità etrusca di Antonio Lopez García (Tomelloso, 1936)- si radicalizzano in una disciplina ostinata e rigorosa, scientifica e mistica ad un tempo, di scavo e d’interrogazione delle forme. Un’etica della pittura, un’attitudine morale e filosofica più che un fare artistico.
In realtà l’esigenza di testimoniare il reale nella sua flagranza era sentita anche altrove, si pensi al neorealismo italiano o all’iperrealismo americano.
Ma qui c’è un modo di lasciare le cose spoglie, senza abbellimenti, tremanti e indifese proprio della pietas religiosa spagnola. Ecco allora i commoventi negozi abbandonati e gli interni deserti di Amalia Avia (Santa Cruz de la Zarza, 1930) e le nature morte incerte nella luce nebbiosa di Carmen Laffón (Siviglia, 1934). Non sfuggirà, inoltre, una serie di rimandi all’arte contemporanea: il taglio geometrico della luce di Isabel Quintanilla (Madrid, 1938) ricorda il post-cubismo, mentre l’atmosfera sospesa dei suoi algidi oggetti rivela un’eco surrealista. Le linee d’orizzonte, l’idea d’infinito nei paesaggi fluviali della Laffón e nelle immense vedute di Madrid di Lopez s’ispirano alla romantica linea nordica da Turner a Rothko.
La via del realismo viene intrapresa, in particolare dal vate Antonio Lopez García, come una scelta di vita, tanto da immergersi nell’opera come nel tempo e nello spazio naturale, senza riuscire a completarla mai (La Cena in mostra) e perdersi nell’esperienza della luce interminabile e mutevole. La “filosofia del reale” si fa nei pittori delle ultime generazioni, esposti nella seconda sezione, ancora più radicale, il loro sguardo più (im)pietoso, brutale, analitico che mai.
Nelle ipertrofiche nature morte di Rarael Muyor(Madrid, 1943), negli sciatti oggetti quotidiani beffardamente monumentalizzati nel marmo di Joan Mora (Barcellona, 1944), nella natura scrutata fin nelle viscere più profonde di Mezquita Gullón (Zamora, 1946): la realtà è sempre di più “la sintesi di quello che vedo, quello che sento, quello che sono” (Antonio Lopez García).
barbara improta
mostra visitata il 25 settembre 2006
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