La personale di
Antonella Zazzera (Todi, 1976) allestita nello spazio di Giuliana Soprani Dorazio riunisce quattro anni di ricerca sul segno e sullo spazio. Una mostra che sembra mettere un punto fermo su un ciclo e aprire una nuova produzione. Sono nuove, infatti, le sculture tessute di rame brunito, piĂą libere e aperte, quasi come fossero una trasposizione tridimensionale di quei segni veloci vergati lo scorso anno a carboncino su rotoli di carte termiche, intitolate
Segniche.
Zazzera si fece notare nel 2005, quando vinse il Premio per la giovane scultura italiana all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma, emergendo su ben più noti colleghi con un fresco dialogo tra luce e materia. Indagando le incidenze luminose dei filamenti metallici, Zazzera ha usato la fotografia per ispezionare le microfibre di rame, di cui isolava i particolari in suggestivi dettagli. L’intreccio di bagliori e oscurità veniva così a costituire la trama e l’ordito di una foresta di segni diagonali. Trasferendo questa fibrillazione su un piano spaziale, Antonella Zazzera raggiunge una stesura nastriforme morbida ma, al tempo stesso, in grado d’imporsi plasticamente come avviluppo continuo di lampi cromatici.
Nel catalogo della mostra si possono scovare i precedenti di questa ricerca: secondo Fabrizio D’Amico ci si deve riferire ai lavori di
Marisa e
Mario Merz e all’
anti-form teorizzata da
Robert Morris. Massimo Mattioli, in un altro contributo critico, scandisce e analizza quattro diverse caratteristiche del lavoro di Antonella Zazzera: “battaglia”, “segno”, “traccia” e “luce”. Quest’ultima accarezza i lavori dell’artista umbra e plasma la superficie, omogeneizzando la fitta griglia di fili di rame, stabilendo così una continuità nel tessuto visivo e costruendo una massa che si assottiglia in una lamina. Non è casuale al riguardo il paragone che propone D’Amico con le sculture di
Carlo Lorenzetti.
Dalla viva voce dell’artista, nell’intervista con Federico Sardella che chiude il catalogo, si può scoprire un percorso che parte dalle più semplici esperienze nel mondo per arrivare alla più complessa elaborazione del problema rappresentativo, come un’estenuante complicazione del rapporto con un vuoto che viene sempre più parcellizzato, spezzettato e infine coperto. A testimoniare questo modo di operare, a catalogo – che funge da complemento antologico alla mostra – sono riportate le
Madri-Matrici del 1999-2001, opere dove una spessa pittura
all-over costituisce il legittimo precedente dei tessuti metallici; ma si può risalire fino al
Segnotraccia del 1997 per comprendere appieno la genesi del lavoro di Zazzera.
Con un candore disarmante, l’artista ricorda la scoperta di una natura ancora in grado di suggerire la via del fare, quasi come se tornasse a essere la fonte dell’arte. Delicatamente, queste pesantissime stole di metallo si arricciano e si piegano in morbidi occhielli, si distendono come lunghe lingue di luce, per poi cadere con un’ansa dal ramo di un albero. Così, dolcemente, la scultura si plasma su un suo omologo organico, quasi fosse frutto di questo.
Anche se poi l’artista è pronta a ribadire la sua natura di artificio, come risulta evidente nelle opere più recenti, dove si rimanda all’ordine progettuale del disegno: una matassa di segni fitti e veloci, vivi e liberi.