Un titolo che è una specie di formula gnoseologica, estrema nella sostanza, imbevuta di suggestioni “empiristiche”. E’ solo l’esperienza della sete a testimoniare l’esistenza dell’acqua, è la sensazione vissuta a determinare la realtà delle cose intorno. Se applicato alla scultura –vera protagonista silenziosa di questa mostra- il concetto assume una forma poetica e bizzarra: la scultura come atto di fede. Un paradosso? Non propriamente. La sola prova dell’esistenza dell’oggetto è l’intuizione che se ne possiede, nonché il ricordo di questa intuizione, la consapevolezza di un passaggio, l’eco di una percezione avvenuta e dissolta. E così, tra materia e leggerezza, concretezza e flatus voci, si gioca la piccola sfida di Marco Magni, che ha reso l’opera traccia, corpo flessibile intimamente connesso a un luogo, esposto alla propria sparizione. E a suo modo, presente.
Una scultura che non c’è, è quella raccontata dal video, in cui a una carrellata di personaggi qualunque, habitué del mondo dell’arte, si chiede di offrire una descrizione/riflessione sulla (fantomatica) opera appena vista.
Un’italiana, una tedesca, un inglese, un coreano, una giapponese -ognuno piazzato davanti alla telecamera, con un’inquadratura sempre nuova- danno la propria versione: elucubrazioni concettuali, citazioni colte, voli pindarici dall’arte alla musica, l’approccio tecnico, quello critico, ironico, descrittivo… Che ne è della scultura dunque? L’opera si compone pezzo a pezzo negli occhi di un pubblico che non ne ha e non ne avrà mai memoria, unico canale disponibile per l’unica fruizione possibile è questo teatro poliglotta, animato dall’improvvisazione dei cinque (in)verosimili attori-spettatori-testimoni.
E se qui la scultura è diventata voce, racconto, evocazione, in Coro è la parola stessa che si fa scultura, traducendo l’anima di un luogo. Si ergono dai loro basamenti lignei -fieri come mulini a vento o come colonne di un’architettura invisibile- sette ventilatori schierati per file, alla stregua di un piccolo coro. Sulle pale, lucidate a specchio -che ruotano con ritmo costante di cinque minuti di moto contro due di pausa- sono intagliate parole, segni luminosi che passano da parte e parte l’oggetto, incidendone la superficie con impercettibile violenza. Sono tutti anagrammi di Placentia Arte: cantata per lei, platea incerta, entra capitale, per tale natica, ala centripeta, pala recitante, teatrali pance, enigmistici divertissement che tengono un filo di senso con lo spazio fisico e simbolico della galleria. Giusto il tempo breve della pausa per riuscire a captare qualche frase, e poi riprende il turbinio. La parola si fa aria, vento, fiato. Il luogo si tramuta in un alito di voci mute.
Ancora un omaggio alla location espositiva -al suo proprietario stavolta- è Auto-Ritratto, un “monumento astrale” proiettato verso l’infinito. Mistura di poesia, ironia, filosofia, astronomia. Magni ha rivestito l’interno di una vetrina con una superficie traforata –trasparente dentro e specchiante all’esterno- i cui fori disegnano una mappa della costellazione che l’artista ha battezzato col nome del gallerista, con tanto di licenza acquistata su internet e certificato depositato. Di notte, l’illuminazione artificiale della stanza lascia filtrare la luce attraverso i fori, vere e proprie stelle, ricamate su un fondo semi-opaco, che si accendono nel buio della strada. E anche stavolta, in un gioco circolare dal micro al macro, dalla presenza all’assenza, dalla consistenza alla levità, la realtà si fa immagine accennata, evocata, sbriciolata, scandita da versi di luce, come da molecole di parole.
helga marsala
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