Il fascino delle grandi mostre ai Sassi, appuntamento annuale con la scultura del Novecento, risiede nel dialogo continuo tra le forme, quelle scavate e quelle scolpite. Un dialogo giocato a volte su opposizioni, con le forme eteree, neo-platoniche di
Viani e i caduchi vuoti delle grotte, a volte su analogie. È quest’ultimo il caso di
Mirko Basaldella (Udine, 1910 – Cambridge, 1969), scultore che
“scava gallerie colle forme di una statua, modula braccia e dorsi come pareti di cunicoli” (Marcello Venturoli); che cava la forma dall’interno della materia e non dal suo esterno, come gli ignoti costruttori dei Sassi hanno cavato strutture architettoniche “per forza di levare” strati di tufo. Il nucleo dell’arte di Mirko, così sfuggente e irrequieta da essere accusata d’incongruità, sta tutto in questa misteriosa forza plastica, che spinge la forma fuori dalla materia, nelle spoglie di eroi, santi, idoli instabili, pericolanti, imperfetti: simulacri di divinità terragne, che ritrovano nella violenza ascetica delle chiese rupestri la loro natura di epifanie.
Quando, nei primi anni ‘30, i fratelli Basaldella si presentano alle esposizioni locali come Scuola Friulana d’Avanguardia, Mirko aveva già assorbito dalla famiglia di artigiani l’amore per la materia, che lo porterà a essere sperimentatore di tecniche e materiali, come un virtuoso capomastro gotico, di cui avrà la stessa attitudine a tradurre sentimenti collettivi in grandi opere pubbliche (
Progetto per uno dei cancelli delle Fosse Ardeatine, 1949). E aveva una solida preparazione musicale -suonava il clarino- che travaserà nella scultura, con un ritmico alternarsi di pieni e vuoti come pause e suoni (
Voci, 1953), un propagarsi in crescendo delle forme metamorfiche che restituisce loro un’armonia nascosta (
Motivo in tensione verticale, 1961). L’influenza maggiore è però esercitata da
Arturo Martini e dalla sua meditazione sull’antico, che lo porta a rivoluzionare la scultura con le aggressive invenzioni plastiche. Mirko ne assorbe la profonda lezione di escavo delle forme per estrarne il fascino estatico, il mistero del mito piuttosto che l’esuberanza manieristica delle torsioni dei corpi. Grazie alla mediazione del primitivismo espressionistico della Scuola Romana, nei suoi anti-eroi nudi, deformi e patetici (
Ragazzo con pesce, 1935) si avverte lo spirito dionisiaco del più anti-classico degli umanisti,
Donatello, e il guizzo nervoso dei combattenti del
Pollaiolo (La strage degli innocenti, 1939).
Riferimenti che arriveranno fino al
David del 1964, che possiede lo spazio ancora con lo scatto donatelliano combinato al virtuosismo manieristico del
Perseo di
Cellini e a infinite altre influenze, che pericolosamente coesistono nella miracolosa congerie formale che Mirko è andato formando negli anni. Il suo tenebroso pantheon si arricchisce man mano con etrusche
Chimere in cemento che respingono con violenza la luce sulla superficie tatuata, totem-aerei inca allungati a dismisura (
Il grande iniziato, 1957), maschere tribali spaventosamente aperte nel vuoto (
Maschera teatrale, 1968), allampanati guerrieri-santi dai costumi babilonesi (
S. Martino, 1966). Di ogni corrente coglie il lato più estenuato, quello che la corrode dall’interno, e lo traspone nelle sue assurde visioni plastiche, che sembrano tendere drammaticamente verso qualcosa d’irraggiungibile. Con la stessa attitudine manierista, Mirko assorbe i linguaggi contemporanei come il post-cubismo, che trasforma i suoi “mostri” in ingranaggi astratti incastrati fra un geometrico/organico gioco di forze (
Figura, 1956) e il surrealismo, di cui coglie il misterioso potere immaginativo e pluri-semantico d’inconsci emblemi intellettuali (
Piccolo iniziato, 1956). Fino alle sue ultime
anabasi (Giuseppe Ungaretti), che annientano il linguaggio new-dada dall’interno, monumentalizzando con colate di bronzo assemblage di oggetti quotidiani (
Personaggio totemico, 1969), rivelando sorprendentemente l’oscuro fascino mitico nascosto nella quotidianità.