Seconda edizione per
Upupa, premiata dalla
direzione regionale per i Beni Culturali tra i progetti curatoriali innovativi
con un discreto finanziamento proveniente da
Sensi Contemporanei. E l’ideatrice,
Grazia De Palma, con la solidale collaborazione di Giuseppe Bellini e Rosemarie
Sansonetti, ha riproposto la sua cifra stilistica – travestendosi da
confortante
maîtresse/
maître-à-penser in caschetto nero -, promettendo performance
sopra le righe, idee espositive per
“mettere in scena un provocatorio e
audace vocabolario escatologico”.
Apre
Alph, un bel cavallo andaluso, insieme a un
omaggio cantato dedicato a
Marina Abramovic da
Susy Swann
Tripper,
per seguire – fra gli altri – con l’approfondimento del necrofilo progetto
d’arte postuma,
Collage project, di
Michele Mariano, nella cornice underground
del Fortino Sant’Antonio: momento in cui è sembrato di esser veramente
“altrove”.
Ma le misurate mostre tra la Galleria Bluorg e
il Museo della Nuova Era smentiscono, tuttavia, l’effetto-sorpresa promesso:
“Cari
scienziati, upupiamoci… Facciamogli vedere quanto è vera la realtà e quanto
può far male la barzelletta del culo che ha sempre ragione! Attenzione: Questa
non è una mostra, ma uno specchietto per le allodole e per tutti coloro che
amano il brivido dell’Imprevisto!”. Nessun imprevisto, appunto; tutto sembra
abbastanza convenzionale, tanto da strizzare l’occhio al collezionista più che
al trasgressivo.
Della mostra alla Bluorg è gradevole l’aspetto
ludico, il gustoso eccesso cromatico; meno il ritorno al già visto, a un “post”
dall’alone accademico.
Fra transavanguardismi e neo-pop del piccolo
formato, tra allusioni minime alle iconografie inquiete di
Serrano o agli interni
polverosi del primo
Beninati, tra esperimenti sonori da spazio
alternativo, emergono
Ozmo,
Gino Sabatini Odoardi,
Nicola Bolla,
Laurina Paperina e in particolare
Raffaele
Fiorella per i sofisticati esperimenti video, retro-proiezioni rinforzate
dalla giusta collocazione. Qui l’artista emerge dal fondo di una botola, si va
facendo luce con un torcia, disegnando con l’indice messaggi intriganti sul
vetro appannato che la ricopre.
Nello spazio del Museo Nuova Era è il nero a
farla da padrone, a partire dall’intensa serie di meta-ritratti di
Davide
Faggiano, in cui il colore assume valore sostanziale in un’operazione di
camouflage di primi piani di
gente comune, dall’aspetto ieratico; al centro troneggia un gatto nero,
allungato a dismisura da imbalsamatori di professione, cui fa da
pendant un topolino, entrambi
pensati dal disimpegnato per scelta
Dario Agrimi.
Nel complesso, un’operazione piacevole,
macchiata dal poco condivisibile inserimento di più opere per ogni artista, a
volte dissonanti. Perché non la sintesi, l’intervento “secco” per individuarne
un percorso, un messaggio, un’emozione? Ma è un po’ la cifra stilistica del
curatore. All’approfondimento ci pensa il catalogo, dove ognuno ha raccontato
se stesso, in chiave confidenziale; specie
Federico Solmi, che lamenta di
essere osannato a New York e mai profeta in patria. Sarà perché il background
nostrano è tale da far distinguere l’innovazione da una “spacciata”
trasversalità?