Il Museo dedicato a Pino Pascali (Bari 1935 – Roma 1968) si inaugurò a Polignano nel 1998 -a trent’anni dalla morte dell’artista, in seguito ad un incidente motociclistico- con la mostra l’Isola di Pascali. Nel 2004 è invece Castel Sant’Elmo a Napoli ad ospitare un’esaustiva retrospettiva del polignanese. Ben diverso è l’approccio che Rosalba Branà, direttore del museo comunale e curatore di Buon Compleanno Pino!, ha voluto conferire a questo evento, che celebra i settant’anni dalla nascita dell’artista. Una mostra sui generis, che più che esporre opere,racconta. E racconta di Pino, morto prematuramente e mitizzato dalla critica, rappresentante tipico dello spirito degli anni ’60, contestualizzando così l’uomo e l’artista.
L’allestimento essenziale, scelta obbligata da uno spazio espositivo poco versatile, sintetizza la ricerca del Pascali degli esordi, indagando in special modo l’attività della metà degli anni Sessanta, introdotti da un piccolo Baco da setola del 1968. Nella prima sala, una bacheca raccoglie invece una serie di testimonianze e cimeli delle innumerevoli performance, dalla maschera di Requiescam, del 1965, all’elmetto di motocicletta, alla testina del film di Patella.
Romano d’adozione, il giovane beatnik frequentava nei primi anni ’60 quel gruppo di artisti poi definiti la Scuola di Piazza del Popolo. Paola Pitagora, compagna di Renato Mambor, ne descrisse il clima nel suo libro Fiato d’artista, titolo ispirato all’opera omonima di un altro ribelle, Piero Manzoni. Ne viene fuori un Pascali meno intellettuale, curioso ricercatore di rifiuti archeo-tecnologici, instancabile frequentatore di rom e motoraduni, affiliato alla generazione on the road.
La libreria d’affezione, ridotta ad una semplice quanto efficace selezione, rivela come i suoi interessi fossero rivolti a Dada, Fontana, Balla, all’Informale, al teatro, all’opera aperta di Umberto Eco. E soprattutto alla scultura africana, in un periodo in cui il “pensiero selvaggio” prevaleva su quello ben-educato degli occidentali. In poche parole quello che affermava Lèvi-Strauss, ovvero un pensiero che si esprime nell’elaborazione dei miti e nella partecipazione affettiva delle cose. E che Pascali confidava a Carla Lonzi a proposito del concetto di civiltà: “dalla civiltà dei consumi nasce un oggetto… invece i negri quando fanno gli oggetti creano una civiltà”. Da qui nascono i suoi appunti di viaggio dalle tecniche sperimentali e di taglio etno, come Aborigeno, Rinoceronte, Elefante, Giraffa, Stregone.
Nello stesso periodo si dedicherà anche alla pubblicità, elaborando progetti per lo Studio di Sandro Lodolo, la Lodolo Saraceni Cinematografica, in cui l’ispirazione all’Africa è chiara (come nello spot per Radio Telefortuna ’65); oppure si esprime con una vena più contemporanea (per la campagna Cirio), nelle inquadrature spesso sovraesposte di un pulcinella (l’artista stesso mascherato), con barche con pescatori, ombrelloni, eliche. Un corpus di fotografie donate da Lodolo al Museo Pascali, insieme a due schizzi di motociclette realizzati a matita per la pubblicità dei gelati Algida.
In bilico tra pop art (per Pascali un “fenomeno tipico e nient’altro”), arte povera e post-informale, nella prima metà degli anni Sessanta rivela un gusto deciso per la materia, che esploderà anche nella scelta di soggetti più commerciali (la serie di navi e velieri polimaterici firmati con lo pseudonimo di Posa, di cui è esposto un saggio dalla collezione di Teresa Lorusso) come in opere insolite (Omaggio a Jasper Johns, 1964). Opere che rivelano il rispetto per i miti dell’arte statunitense ma anche la comunanza di ricerca tecnico-formale con i compagni di viaggio Piero Manzoni, Franco Angeli, Tano Festa, Cesare Tacchi (come attesta l’unica opera di grande respiro esposta nella mostra polignanese, Gravida, generoso prestito del Macro di Roma) e l’influenza dell’ambiente della Galleria La Tartaruga, dove nel 1965 inaugura la sua prima personale.
L’anima giocosa e quel gusto irriverente di stampo dada è poi racchiusa nel curioso progetto per una macchina celibe –Il supplizio di una vergine– cianografia che descrive nei dettagli le azioni e gli strumenti che porteranno la vittima (mai raffigurata) alla morte per mano del “grande maestro del supplizio” e del “batterista boia”, secondo un sistema di carambole ed eventi di fisica “amusante”. L’azione è poi riprodotta in un’animazione a cura degli studenti della professoressa di Storia dell’Arte contemporanea di Roma Simonetta Lux, proprietaria dell’opera.
Chiude la mostra -corredata da un catalogo su cui capeggia l’icona del bel Pino- la retrospettiva video di eventi e performance che hanno caratterizzato le edizioni di Ritorno al mare, organizzate nella suggestiva Cala Paura di Polignano (1992/’97), antesignani esperimenti di turismo culturale, curati dal Gruppo Zelig.
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lo chiamano museo????
non tanto in senso spaziale quanto in quello di direzione!
esiste??????
la galleria gagosian apre in questi giorni una personale di pascali
questa è una notizia.
ancora ancora ancora ci sono riusciti