Categorie: altrecittà

Fino al 16.VI.2013 | Borderline: Artisti tra normalità e follia. Da Bosch a Dalí, dall’Art Brut a Basquiat | Ravenna, MAR

di - 26 Maggio 2013
Esiste un filone di studi che sta facendo molte vittime sul fronte del dibattito, una disciplina ponte tra le scienze cognitiviste e l’arte propriamente intesa: una psicologia dell’arte che prende le sue mosse dai risultati della creatività, interpretandoli alla luce delle scoperte della mente. Se da una parte la fenomenologia dell’arte impone l’analisi dell’opera attraverso la sua manifestazione sensibile (è ciò che appare), la psicologia dell’arte tenta invece di rintracciare , spesso a posteriori, le cause latenti che si sono poste alla base di una produzione artistica. Come dire che se da una parte la più moderna critica pone l’opera come nodo di una rete che raccoglie sociologia, politica e semantica, la psicologia dell’arte procede endemicamente, valutando l’opera come segno-traccia di pulsioni tutte interiori. Pur con lo slancio che uno studioso può avere, credendo che le sue categorie di riferimento siano certamente le più valide, per presentarsi sulla soglia della mostra “Borderline artisti tra normalità e follia. Da Bosch a Dalí, dall’Art Brut a Basquiat” si rende necessario ancorare il ragionamento, adottando come nume tutelare un testo che possa, nella narrazione di questa esposizione, indicare i territori entro cui articolare il discorso.

Nel 2002 lo psicanalista Marco Alessandrini dà alle stampe il testo Immagini della follia. La follia nell’arte figurativa che si pone come obiettivo quello di sviscerare le caratteristiche salienti di ciò che comunemente in arte è stato considerato folle, e per questo molto spesso rigettato dalla critica come espressione malata. Una intenzione che aveva il preciso obiettivo di riabilitare la produzione di anime sensibili, costrette per le più svariate ragioni, ad adoperare un linguaggio ormai scollato da ciò che brillantemente Gino Sandri definiva “la vita dei ragionevoli”. Riabilitare è un termine sembra ricorrere molte volte tra le opere degli autori contemporanei in mostra a Ravenna, disseminati come sono accanto a Salvador Dalì, dopo Jean-Michel Basquiat, tra Paul Klee e Max Ernst; certo, dalla processione delle sale ci si sarebbe aspettato qualcosa con più mordente, un allestimento più rapsodico, giocato sulla linea dei vuoti e dei pieni e che invece rimane fisso sulla linea d’ombra della parete (eccezion fatta per la sala dedicata ad Aloïse e ad alcune opere di Carlo Zinelli, esposte a vela), costringendo lo spettatore ad analizzare contemplativamente, più che permettendogli di sfondare nell’anima motrice di quelle espressività. Ciò che oggi intendiamo con arte visionaria (si considerino ad esempio le opere di Diego Velasquez o di Juan Jusepe de Ribera, le incisioni di Sebastian Brant o quelle del bolognese Giuseppe Maria Mitelli) non ha goduto nel passato di nobile reputazione, rigettata dalla critica spesso come artisticamente inconsistente. A memoria si ricordano facilmente i Refusés e più recentemente l’Art Brut di Jean Dubuffet, qui interpretata non tanto per la sua componente materica spessa e nebbiosa, ma come vero e proprio brodo primordiale delle passioni. Curata da Claudio Spadoni, Gabriele Mazzotta e dallo psichiatra Giorgio Bedoni, questa mostra traccia una linea interpretativa molto profonda che prende le mosse dagli eccezionali Caprichos di Francisco Goya per dialogare con le tavole di Max Klinger, che sfiora la fisionomia del monomane -in mostra il masterpiece Le médicine chef de l’asile de Bouffon di Théodore Géricault, realizzato durante la sua permanenza all’asile di Étienne Georget- per giungere agli autoritratti come confutazione dell’immagine personale, in una sala dedicata all’opera di Antonio Ligabue. Per lasciare spazio alle scritture automatiche di Federico Saracini o di Dwight Mackintosh, e per concedersi vasta alle ombre seriali di Gaston Teusher, Lorenzo Viani, Carlo Zinelli, André Masson o Oswald Tschirtner. Una relazione pericolosa tra opere conosciute e documenti d’archivio che in un’ottica borderline sembrano coesistere in equilibrio, sulla naïveté di un sé.
Paola Pluchino
Mostra visitata il 1 marzo 2013
dal 17 febbraio al 16 giugno 2013
Borderline: Artisti tra normalità e follia. Da Bosch a Dalí, dall’Art Brut a Basquiat
MAR
via di Roma, 13
Ravenna
Info: 0544 482477/482356 info@museocitta.ra.it

Professionista multidisciplinare vive a Bologna dove si interessa di progetti d’eccellenza in ambito culturale, collezionismo, editing, curatela dell’arte contemporanea, crowdfounding, giornalismo e design ltd. Laureata in Scienze della Comunicazione e in Storia dell’Arte Contemporanea ha perfezionato i suoi studi a Venezia con un Master in Art Management in collaborazione con La Biennale. Ha lavorato al riordino del fondo Stefano Tumidei presso la Fondazione Federico Zeri di Bologna e come ufficio stampa per il Festival di Storia dell’Arte Artelibro - Bologna per cui ha curato l’editing del catalogo dei collezionisti antiquari A.L.A.I. A Treviso è stata professoressa in Citizen Journalism. Conclusa l’esperienza durata due anni come direttore editoriale della rivista di ricerca The Artship | Bulletin of Visual Culture specializzata su future e talenti emergenti – con il patrocinio dell’Università degli Studi di Bologna - ha iniziato la sua collaborazione con T.E.C.A periodico del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università degli Studi di Bologna. Ha curato il profilo di ricerca e sviluppo nell’ambito lusso per Archivio delle Opere del Maestro Roberto Paolini e per i tirocini attivati con l’Accademia delle Belle Arti di Bologna. È corrispondente per il periodico d’arte contemporanea Exibart. Gli articoli di Paola su Exibart.com

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