In bilico tra il rischio di proporre in ambito museale opere troppo fuori contesto per risultare ancora significative, e quello di creare altro rispetto a una mostra d’arte (un magazzino di vecchie scenografie, un laboratorio di progetti e plastici), l’esposizione che il Mar dedica a Mimmo Paladino (Paduli, Benevento, 1948; vive a Paduli ed a Roma) riesce a far emergere punti di forza che rendono apprezzabile l’insolita operazione.
Nel museo sono infatti esposte scenografie realizzate dall’artista per varie rappresentazioni teatrali: l’Hortus Conclusus (1991), l’Edipo re (2000) e l’Edipo a colono (2004) di Mario Martone; i Brani dell’Iliade e dell’Odissea (2001) di Toni Servillo; il Tancredi di Rossini realizzato nel 2002 per il teatro San Carlo di Napoli; Sull’ordine e disordine dell’ex macello pubblico (Rivoluzione ’99) di E. Moscato (1995-2001).
A questo nucleo centrale si aggiungono bozzetti preparatori, poster, alcuni bronzi e plastici (oltre ad una curiosa fotografia di Mapplethorpe di una maschera in bronzo esposta), un paio di premi progettati dall’artista, 11 ritratti di drammaturghi e la corposa serie di tavole illustrative della riedizione dell’Iliade e dell’Odissea, tradotte in italiano da Toni Servillo.
Quasi tutti i progetti sono accomunati dal fatto di avere alla base una committenza, in alcuni casi pubblica. Ma non si tratta dell’unico legame. L’interpretazione che Paladino offre dei diversi incarichi appare infatti fortemente coerente, sia dal punto di vista tematico che espressivo. Attraverso la riproposizione di mani, nasi, teste, braccia, piedi, scale e carri, l’artista pare non solo ribadire le sue personali ossessioni imprimendo una cifra stilistica molto forte al suo lavoro, ma anche accordarsi alle valenze simboliche degli spettacoli, tutti centrati su grandi drammi umani, e all’ancestralità intrinseca della rappresentazione teatrale. Anche l’uso di materiali grezzamente lavorati (bronzi molto scabri, legni vecchi e non trattati, ferri arrugginiti), di forme appena abbozzate e di maschere e teste umane appiattite su due dimensioni e prive di fisionomia, si armonizzano alla sofferenza emanata dalle tragedie nelle pur brevi sinossi riportate: storie di uomini disgregati e alla ricerca di sé (Edipo, Ulisse), di martiri di lotte per un ideale (i morti nella rivoluzione di Napoli del 1799) e di vittime di grandi ingiustizie (Tancredi).
Il propugnato ritorno all’umanesimo, vessillo della Transavanguardia come presentata da Achille Bonito Oliva, sembra dunque concretizzarsi qui attraverso l’humanitas (nel senso proprio di concentrazione su questioni legate alla propria natura da parte degli uomini) che trasuda dal percorso dei drammi per cui Paladino ha lavorato. Apprezzabile anche il fatto che, pur ispirato agli spettacoli teatrali, il lavoro dell’artista campano resta tuttavia indipendente, fortemente connotato dai suoi stilemi e quindi riconoscibile. Si potrebbe anzi affermare che il surplus di significato dato dalle convergenze tra le rappresentazioni e le scenografie dell’artista paia illuminare il senso dell’intera opera di Paladino.
Molto affascinante è anche l’a parte dell’istallazione I dormienti, nella chiesa di Santa Maria delle Croci: camminando in mezzo alle statue in terracotta di corpi addormentati, rannicchiati su un fianco e delicati come cocci (gran parte di essi ha pezzi spezzati e mancanti), sembra di avvertire tutto il peso della fragilità umana.
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