La prima opera di Osvaldo Licini (1908-1958) in questa mostra è il famoso Autoritratto del 1913. Un quadro che Francesco Arcangeli ha avvicinato a Giorgio Morandi, ma nell’accezione stilistica più semplice della pittura morandiana. Si tratta di un’opera di grande importanza, tra le trentasette qui esposte.
Licini è sempre stato un artista appartato, riservato, ma non per questo disinformato su ciò che accadeva, a livello artistico, nei primi decenni del Novecento. La ricerca che ha svolto nel laboratorio pittorico di Monte Vidon Corrado, paese in cui è nato e vissuto fino alla morte, risente del clima “secessionista”, assimilato negli anni di Bologna, e del suo cauto approccio al futurismo fiorentino, per arrivare alla stagione astrattista. Quest’ultima fase lo ha reso maturo stilisticamente e conosciuto ai più, ma la personalità schiva lo ha sempre spinto a vivere appartato. Per una sorta di destino avverso, Licini è oggi relegato ancora una volta in disparte, rispetto alle altre grandi mostre in corso al Museo di Santa Giulia. L’esposizione è laterale e poco segnalata nascosta dalle contemporanee Turner e gli impressionisti e Mondrian. Chi riesca a vedere la mostra potrà notare inoltre che gli spazi non sono ampi come meriterebbero i quadri di Licini.
Il periodo pittorico preso in considerazione è quello che va dagli esordi fino alla fine degli anni Venti. Una selezione di ritratti e paesaggi di grande intensità permettono di arrivare a comprendere quello che sarà il Licini astratto e quello delle Amalassunte, che come dirà lui, sono la rappresentazione, della “luna nostra bella”, “amica di ogni cuore stanco”. L’esposizione, quindi ci mostra un Licini figurativo, ma che prelude al cambiamento e al rinnovamento del linguaggio della forma, che lo vede coinvolto come pochi artisti italiani di quel periodo.
Dopo i decisivi viaggi del 1930-31, sia in Svezia sia a Parigi, giungerà all’astrazione, ma mai attraverso un’elaborazione teorica, sempre per intuizione, come dimostrano queste “emozionanti rappresentazioni”. Si capisce da questi lavori quanto siano stati importanti i riferimenti alla tradizione e ad alcuni pittori a cui si richiama, Cézanne, Van Gogh e Matisse, prima di abbracciare l’antinaturalismo. Opere come Paesaggio con uomo (Montefalcone) del 1926-1927 e Paesaggio Montefalcone (Il trogolo), del 1928, non fanno altro che dimostrare la ricerca “di linee di forza per la composizione dell’immagine”. Linee che lo proiettavano in un rapporto sempre più evidente con l’astrazione.
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Faccio i complimenti a Claudio Cucco soprattutto perchè, col suo articolo, ha reso omaggio ad un pittore mio conterraneo ingiustamente relegato fra i cosiddetti "artisti minori" del '900.
Solo vorrei fare un osservazione di precisione (che nulla vuole togliere alla recensione): il paese marchigiano che ha visto l'inizio e il termine della vita liciniana è Monte Vidon Corrado (non quindi Monte Vidon Carraio)!
Emanuele Mazza