“Signore, quando i campi sono freddi,/ quando sui casolari diroccati,/ tacciono i rintocchi dell’angelus…/ sulla natura sfiorita/ fa che si avventino dai grandi cieli/ i corvi cari e deliziosi”. Così comincia una poesia di Rimbaud intitolata I Corvi. Pochi versi in cui sembra racchiusa tutta la poetica della pittura di Jean Francoise Millet. Millet guarda alla preghiera, alla calma serotina di una vita ancora scandita dai tempi della terra e dalle ore della liturgia. Come si avverte nel celebre Angelus, tela pervasa da una luce che sa di grano e di riposo dinanzi al focolare, e modella i corpi avvolgendoli nel suo silenzio.
Il mito di Millet come uno dei più grandi naturalisti dell’Ottocento è stato costruito interamente dopo la sua morte. Bisogna andare oltreoceano per trovare i pittori e i critici che per primi, durante la sua vita, recepirono e amarono la sua pittura. Già nel 1855 Millet era tanto famoso tra i pittori bostoniani che uno di questi, Edward Wheelwright, giunse apposta a Barbizon per mettersi ‘a bottega’ dall’amato maestro. Ed è proprio grazie alla generosità dei collezionisti bostoniani, che il Museum of Fine Arts possiede oggi una delle più complete raccolte delle opere del pittore, dalla quale giungono le sessanta esposte nella sede bresciana. Dipinti, pastelli, disegni e acquerelli attraverso i quali è possibile seguire quasi tutto il percorso professionale di Millet. Dagli anni Quaranta, con opere come l’Autoritratto o La Donna che riposa in un paesaggio, in cui ancora è fortemente avvertibile la lezione del Settecento inglese (da Watteau a Fragonard), fino a lavori fondamentali come Ruth e Booz (1850-53), prima opera a procurargli un riconoscimento ufficiale, e Seminatore (1850), unanimemente riconosciuto come il “primo grande capolavoro dell’artista”.
Sono celebri le frasi con cui Van Gogh spiega il fascino dell’arte di Millet, parlando proprio di questo dipinto: “una figura carica di maggiore umanità di un vero seminatore di un campo”. All’intenso rapporto che lega i due artisti è dedicata non a caso una sezione della mostra Gauguin e Van Gogh, allestita nella stessa sede di S. Giulia.
Millet aveva ben capito che “vedere è essenzialmente un atto della mente”, e dimostra di averlo capito anche Van Gogh, considerando gli ‘studi’ di Millet nel loro rapporto con la natura, aldilà delle letture in chiave reazionaria o progressista che ne venivano date. Le letture in chiave reazionaria compromisero anche i giudizi in rapporto con gli altri rappresentanti della scuola di Barbizon, Daumier e Corot, e col gigante Courbet, che come lui rappresentò spesso lavoratori umili. E se sotto il pennello di Courbet le immagini dei contadini si trasformano sempre in una protesta, arrabbiata e provocatoria, in quelli di Millet, seppur con gli stessi intenti di denuncia, si fanno preghiera, supplica rassegnata fino alla disperazione.
Ecco allora i risultati estremi della pittura di Millet, come i Piantatori di patate (1861) e Estate (1868-74).
E’ lo stesso Millet ad appuntare su un foglio di disegni quella che può esser ben intesa come una vera e propria dichiarazione programmatica: “Bisogna fare in modo che il triviale si ponga al servizio dell’espressione del sublime: questa è la vera forza”. Ed è grazie ai prestiti dall’antico che questo “realista” riesce ad “elevare di grado le sue creature agresti, per sublimarle come nessuno in precedenza aveva mai nemmeno immaginato” (Farinella).
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