Se il postfemminismo è finito, surclassato ed ispessito dallo xenofemminismo, tendenza contemporanea radicalizzata (Helen Hester, Nero Editions, 2018), in un momento storico in cui la parola femminismo è in auge, l’arte di Birgit Jürgenssen (Vienna, 1949 – 2003) precorre e attinge sia dal femminismo radicale degli anni Settanta e dal discorso post-strutturalista di Judith Butler sul genere performativo sia, per qualche incursione, dal discorso xenofemminista (nell’erosione del paradigma della donna come portatrice di vita) e dal filone fantasy/fantascientifico anni ‘90, in tutta la sua carica visionaria proiettata nel tempo e nello spazio.
Le difficoltà del genere femminile, ad uscire dai limiti imposti dalla tradizione, esaltate in una proiezione originale e avanguardista, un “divenire-animale” (G. Deleuze, 1970), un movimento per cui il soggetto non occupa più posizioni stabili, ma è piuttosto immerso in un’esistenza nomade e anomala che rifugge qualsiasi tipo di classificazione. Birgit Jürgenssen, artista assai stratificata nell’esplorazione massima delle “profondità”, anche di stili e tecniche, dal pensiero organico e rizomatico.
“I tacchi sono femministi” è una delle espressioni più deleterie del femminismo commerciale che riguarda soprattutto l’empowerment individuale. Niente di più lontano da Birgit Jürgenssen, figura schiva e allergica alle apparizioni pubbliche e alle interviste (4 in 14 anni, dal ’89 al 2003), tuttavia amante della moda, di tacchi innestati sul corpo (“Scarpa involtino”, 1977) o ibridati (“abolizionisti del genere”: tra piante, animali ed esseri umani, 1974-76). Detestava anche le etichette. Non a caso, appena le diedero l’appellativo di “donna delle scarpe” nel 1975, la Jürgenssen prese subito le distanze smettendo di produrle. Birgit Jürgenssen si autoesclude a priori dal femminismo mainstream per la sua vulnerabilità che, spesso, annacqua la componente coraggiosa. “Ich bin” (io sono), piccola scultura del 1995, racchiude tutta la problematica. La dichiarazione (io esisto!), scritta su una lavagnetta con un gesso bianco, è così labile da poter essere cancellata con un solo colpo di spugna (che l’artista espone provocatoriamente a lato).
La figura artistica di Birgit Jürgenssen, non fu immediatamente leggibile nella seconda metà del XX secolo, spesso esclusa e travisata, perché sconosciuta alla critica e al grande pubblico. Si rendeva visibile, celandosi attraverso il camouflage, dietro alle maschere (una faccia da volpe come ritratto: “Io con pelliccetta”, 1974-77) ), ai tessuti nei suoi autoscatti (“Senza titolo”, 1976), ai travestimenti. Ridotta semplicisticamente a proto-femminista, quando in realtà la sua è una “storia minore” che rimanda a tematiche plurime, multiformi, non inserendosi in narrazioni radicate (movimenti, discipline, media), ma esercitando una pressione costante su categorie omogenee e rigide, su stereotipi, ruoli precostituiti e tabù della società.
Ora, nel 2019, l’arte di Birgit Jürgenssen viene disseppellita dall’oblio grazie ad un lavoro certosino di dieci anni sull’archivio, l’Estate Birgit Jürgenssen, condotto dalla curatrice Natascha Burger che ha setacciato un numero enorme di opere tra disegni, fotografie, stampe, edizioni, sculture, lavori su tela e video.
Birgit Jürgenssen Ich möchte hier raus 1976. Courtesy Galerie Hubert Winter Vienna © Estate Birgit Jürgenssen by SIAE 2019
Definita dal teorico Peter Weibel “la connessione mancante” nella storia dell’avanguardia del femminismo austriaco, tra la pittrice Maria Lassnig (di cui la Jürgenssen fu assistente) e la performer Valie Export, Birgit Jürgenssen racconta una storia di frizioni, arresti e riprese, allontanamenti e parziali censure. Emblematico il caso della sua mostra personale del 1978, “Lineature”, nella sezione arti grafiche al museo Albertina di Vienna, in cui decisero di relegare i disegni a matita di sue parti del corpo frammentate (per esempio “Spirale – piccolo dito”, 1978) in uno stretto corridoio. Venne rigettata dall’establishment culturale dell’epoca in più occasioni; nel 1971 perse l’occasione di 3 borse di studio a New York, Berlino e Londra così come nel 1976 il governo austriaco le negò la borsa di studio per le Belle Arti; ben due volte la Dumont Publishing Company rifiutò la pubblicazione di una sua miscellanea sulle artiste donna. Questo dice a proposito: “così frequentemente la donna è considerata un oggetto d’arte, di rado e con riluttanza è messa nella condizione di parlare o di mostrare il suo lavoro. Io, per una volta, vorrei avere la possibilità di confrontare me stessa non solo con gli uomini, ma anche con le mie colleghe donna”. Le colleghe, a cui Birgit Jürgenssen si ispira, sono le surrealiste Meret Oppenheim (nelle tazzine, scarpe e gioielli impellicciati) e Louise Bourgeois (nei disegni o oggetti scultorei) ritenute più poetiche, meno dirette e sovversive. Cosa che lei è. “Das Trampel”, la combinaguai. A 8 anni, quando iniziò a disegnare storie sull’eserciziario del fratello firmandosi “Bicasso” (Dopo Pablo Picasso), era considerata una bambina sgraziata e pestifera. Autoironica, provocatoria, insistente. Nel 1988 fondò un gruppo di donne artiste, “Die Damen”, un’alternativa al mito dell’artista maschio attivo, sulla scia dei “Disegni di casalinghe”, considerati dalla Jürgenssen come una performance abbozzata. Disegni brillanti e irriverenti che, con decisi tratti di matita colorata, rendono una casalinga che “stira” gli uomini e gli “impila” in una cesta (“Lavori da casalinghe”, 1975), una “frau”, una signora con sembianze di tigre rinchiusa in una gabbia a cui disperatamente si aggrappa (come a dire: lasciatemi uscire da qui!) o una Cenerentola con i bigodini che pulisce i vetri sognando una vita patinata (“Pulendo vetri”, 1975)
“Femminismo gentile e pieno di humor”, scrive bene Dario Pappalardo sulla Repubblica (Robinson, marzo 2019). Perché, non sopportando le rigide separazioni, Birgit Jürgenssen gioca sulle polarità: del carattere (timida/sensuale, misurata/prorompente, tranquilla/selvaggia), del genere (maschile e femminile), delle relazioni (uomo/donna, uomo/animale, uomo/natura), e su tutto quello che sta in mezzo, a latere. Anche sui paradossi, quelli del femminino. La Jürgenssen lega la maternità ad un senso di tensione anziché alla tenerezza o alla premura. Nella serie fotografica del 1975 “Grembiule da cucina da casalinghe”, in cui l’artista stessa posa con l’obiettivo rivolto verso di sé, la donna è rappresentata, in modo clownesco, come un forno da cui esce un pane tondo e fragrante, accostando la capacità riproduttiva femminile ad un’uniforme omologante che va necessariamente indossata.
Una libertà che permette a Birgit Jürgenssen movimento e complessità, come nei racconti di Raymond Chandler (da lei tanto amati), dove le donne utilizzano lo stesso linguaggio degli uomini, in termini di battute ironiche e botta e risposta taglienti. La letteratura è un elemento importante nella sua produzione artistica. Negli anni ’70 leggeva i Surrealisti, tra etnologia, filosofia e teatro: Michel Leiris, Antonin Artaud e André Breton e i libri sulle scienze naturali della casa editrice di Monaco Matthes & Seitz. È da considerarsi una figura molto discosta dal suo panorama contemporaneo: divertente, trasgressiva, sgradevole, e allo stesso tempo poetica, morale e filosofica.
Prolificano le mostre a lei dedicate, 4 solo nel 2019 tra personali e collettive, e quella da poco inaugurata alla GAMeC, “Birgit Jürgenssen. Io sono” (dall’opera omonima) itinerante tra Germania (Kunsthalle Tübingen) e Danimarca (Louisiana Museum of Modern Art). Le 6 sezioni che scandiscono la mostra, sapientemente curata da Natascha Burger e Nicole Fritz, presentano 150 straordinari lavori, tra l’estatico, il commovente e l’ironico.
Tutto il suo portato visionario, un divenire e costruire continuo, aperto all’intervento e alla ri-significazione, si vede soprattutto nelle polaroid degli esordi, nelle sculture, nelle fotografie a colori degli anni ‘90 avvolte nella seta, e nelle proiezioni sul corpo (2009).
“Non si tratta di fuggire come persona occultandosi dietro una maschera, ma piuttosto di essere una superficie di proiezione e una donna significante” .
Petra Chiodi
Tra le coraggiose protagoniste delle avanguardie degli anni Settanta, Birgit Jurgenssen, è un’artista che non si scorda più, per la sua surreale leggerezza di trattare temi femminili più che femministi con una poetica ironia, davvero sorprendente. La GameC, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo (fino al 19 maggio), ospita la prima importante retrospettiva intitolata “Birgit Jurgenssenritz. Io sono”, a cura di Natascha Burger e Nicole Fritz in collaborazione con l’Estate Birgit Jurgenssen, la Kunstalle Tubingen e il Louisiana Museum of Modern Art,comprensiva di un corpus di disegni, sculture, oggetti sperimentali, video e in particolare fotografie, mezzo espressivo che con il disegno esprime al meglio la sua poliedrica creatività. L’artista viennese all’età di otto anni inizia a disegnare opere di Pablo Picasso in un quaderno, firmate BICASSO Jurgenssen, una crasi tra il nome del genio spagnolo con “BI”, l’abbreviazione del suo nome. A quattordici anni Birgit riceve in dono la sua prima macchina fotografica semiautomatica, e fu subito una attrazione fatale, così inizia a scattare fotografie dei suoi oggetti. Dopo le scuole superiori, come tanti artisti della sua generazione, andò in Francia, dove si avvicina al surrealismo, approfondisce la psicoanalisi, l’antropologia e il teatro di Artaud. Successivamente sarà ammessa all’Accademia di Arti Applicate a Vienna, anche se non aveva i titoli necessari, dove si diploma nel 1971: gli anni delle contestazioni e rivoluzioni sociali e dell’ondata rosa nell’arte “feudo” maschile fino agli anni ’80. Dopo cambiato il contesto culturale, l’artista austriaca inizia a insegnare nella Master class di Arnulf Rainer all’Accademia Albertiana di Belle Arti di Vienna, dove è docente per vent’anni e istituisce la classe di fotografia e d’arte multimediale. La sua prolifera attività artistica, ancora sconosciuta in Italia, a Bergamo si racconta con 150 opere nelle sale della GameC in cui tra disegni, sculture, esilaranti quelle a forma di scarpe, come “Scarpa incinta” (1976), con feto, collage, spiccano le fotografie, i rayogrammi, cianotipe e guache, il fil rouge è ribaltare gli stereotipi culturali dell’immagine della donna, la messa in discussione del ruolo maschile e femminile con sagace ironia e il rapporto tra uomo e animale.
Birgit Jürgenssen Netter Raubvogelschuh / Bella Scarpa-Rapace, 1974-75 Metallo, piume, zampa di gallina Cm 30 x 23 x 13 Estate Birgit Jürgenssen (s9) Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen by SIAE 2019.
Seduce al primo sguardo l’immagine della donna-cucina, in cui corpo e fornelli di uniscono. Tra le sue opere più rivelatrici della sua poetica, fa sorridere Grembiule da cucina da casalinghe (1975), ironica trovata in cui si vede un improbabile grembiule tridimensionale a forma di piano cottura, con forno incluso, che l’artista indossa e paradossalmente diventa l’elettrodomestico. Anche le altre immagini mettono in discussione il ruolo della donna nella società capitalista e la gravidanza. Inoltre si concentra sul corpo femminile quale elemento fisico e concettuale in cui si determinano i rapporti di potere nella società nel secolo scorso, tra divisione del lavoro dell’uomo in carriera e la donna non dipendente economicamente confinata al ruolo di “angelo del focolare domestico” e madre. E tra giochi linguistici in bilico tra letteratura e quotidianità, come si osserva nei disegni autografati BICASSO, la serie 10 giorni-100 foto, che presenta una ricostruzione dell’installazione esposta nell’omonima mostra allestita nel 1980-81 nella Galleria Hubert Winter di Vienna, si nota il volto dell’artista, prevalente nelle prime fotografie come metafora di riflessione condotta su se stessa, che diventa indecifrabile, un enigma “magrittiano”. Oltre alla serie Bagni, l’artista rielabora i miti letterali, come Ophelia (1979), innamorata di Amleto e da lui respinta, morta suicida per amore, altro tema prediletto le Metamorfosi di Ovidio. Tutto il suo lavoro è di matrice surrealista e nelle opere in cui riprende la metamorfosi , il tema dell’ibridazione tra uomo e animale, Jurgenssen si sente in sintonia con Meret Oppenheim e Louis Bourgeois, come dimostra Senza Titolo (Autoritratto con piccola pelliccia), 1974.
L’influenza surrealista si palesa anche nella sua fascinazione per la tecnica dell’assemblaggio, con Unicorno (1991), in cui prevale l’attitudine onirica, dove il cavallo, già oggetto di ricerca dell’artista, trova riscontro nel costume da unicorno indossato da una donna: così mescola erotismo e meccanizzazione, enigma e poesia in maniera affascinate. Nel 1980 Jurgenssen lavora come assistente di Maria Lassnig all’Università di Arti Applicate di Vienna, quando inizia a realizzare grandi opere su carta, cariche di una gestualità espressiva di grande pathos, mescolando diverse tecniche pittoriche e grafiche, anche in questo caso l’enigma e le complessità del corpo, della figura umana, resta al centro di gravità irriverente delle sue sperimentazioni dall’esito imprevedibile.
Jacqueline Ceresoli
Dal 7 marzo al 19 maggio 2019
Birgit Jürgenssen. Io sono
GameC
via San Tomaso 53, Bergamo
Orari: da lunedì a domenica dalle 10:00 alle 18:00
Info: www.gamec.it