Chimico-erborista, archeologo-etnografo, politico, insegnante, artista: categorie sociali che non esauriscono la personalità poliedrica di Pinot Gallizio (1902-1964). Alla sua figura la città di Alba dedica un caloroso omaggio, in collaborazione con la Fondazione Ferrero, il Centro studi “Beppe Fenoglio” e l’Archivio Gallizio.
Il percorso espositivo mette in luce il Gallizio artista, creatore di opere informali e impregnate di quell’utopia sociale che diede vita nel 1956 al 1° Congresso Mondiale degli Artisti Liberi o al singolare testo del Manifesto della pittura industriale (1959).
Nella sede del municipio ecco la ricostruzione della Caverna dell’antimateria, realizzata originariamente per la galleria Drouin di Parigi, dove fu esposta nel 1959. 145 metri cubi di pigmenti oleosi che avviluppano i sensi dello spettatore con colori, odori e musica. “La parete di destra, la parete di sinistra e il fondo della galleria –spiega il pittore– rappresentano le reazioni che si veri
C’è sempre un punto-zero nell’arte di Pinot Gallizio che ricorda il punto fermo degli straordinari Quattro quartetti di T.S. Eliot: “al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo né incorporeo/ Né muove da né verso” (Burnt Norton, 1936). Sebbene il paragone sia piuttosto ardito, l’immediatezza della pittura di Gallizio, la sua materia così densa, quei fondi pastosi su cui s’inserisce il suo gesto grafico, possente e libero, ricordano il paradosso del presente di Eliot, quel contrasto mai risolto tra la materia e l’immateriale, il passato e il futuro, e l’immobilità e il moto. Gallizio lo chiamava “lo stato di grazia del punto-zero”, concetto che riassume la sua ricerca come uomo e artista, alla base della poetica di quell’Internazionale Situazionista nata dall’incontro con Asger Jorn, Guy Debord e Simondo.
Lasciata la Caverna, si accede ad un’altra sala del municipio, in cui si possono vedere le tele Le mosche (1958-59) e Lo spazio incredulo dei dissimetrici, prima sezione del Tempio dei Miscredenti, un progetto di pittura ambientale mai terminato. Il nero, che spesso in Pinot ha valore grafico, disegna figure immaginarie, zoomorfe e fitomorfe su stesure dai colori primari sporcati e lungamente studiati. Nella stessa sala, La notte etrusca (1962) costituisce un stacco silenzioso rispetto alle opere precedenti: una neve di gocce bianche scende su toni pastello, come se “l’aria diventasse pittura”, secondo le parole puntuali del critico Carla Lonzi scritte all’amico Gallizio nel giugno del 1962. La grande peur (1956), composta da olii, carbone, pigmenti, sabbia, carta stagnola, gusci d’uovo e piume d’uccello, insieme ad Antiluna (1957), costituisce un esempio della prima maniera dell’artista, prossima all’astrattismo del
Visibile in permanenza, la bellissima tela Le fabbriche del vento I (1963) situata nell’atrio del Teatro sociale conclude la sezione pittorica del percorso albese. Mentre al Museo Civico è installata l’Anticamera della morte (1963), sorta di testamento ideale del pittore, che immobilizza, sotto uno strato di una pesante vernice nera opaca, gli oggetti significativi della sua vita. Presagio di morte dal significato ambiguo, l’installazione in nero non può non essere il punto di partenza (il punto-zero) per la vita sempre nuova a cui aspirava Gallizio: “ora tocca a noi artisti, scienziati, poeti creare nuovamente le terre, gli oceani, gli animali, il sole e le altre stelle, le arie, le acque e le cose. E toccherà a noi soffiare nell’argilla per cercare l’uomo-nuovo adatto al riposo del settimo giorno”.
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