Si muove su vari formati l’ambizioso progetto di
Josè Corvaglia (Poggiardo, Lecce, 1974; vive a Roma, Milano e Lecce) in mostra nelle sale del Palazzo Baronale di Vaste, un paesino del basso Salento. Riprendendo il titolo e le suggestioni del dipinto di
Caravaggio La cena di Emmaus, il giovane regista-artista è alla ricerca di nuove modalità di fare cinema e fare arte.
Una mostra, un libro e un film compongono un ipertesto perturbante, che lo spettatore può manipolare e attivare a proprio piacimento. Leggere, guardare, ascoltare sono le componenti sensoriali che accompagnano il viaggio nelle otto sale del Palazzo. Un percorso per suoni e immagini che conduce nelle pieghe dell’azione di Mattia, undicenne protagonista del cortometraggio. Giocando a nascondino in un ipermercato, Mattia si perde in un mondo concentrato, accelerato, fatto di luoghi martoriati dalla guerra, di baraccopoli. È la nostra condizione globalizzata, dove al fanciullo non resta che nascondersi e correre, correre. Il gioco si combina alla realtà, generando uno straniamento che non richiede spiegazioni, commenti. In questo desiderio di nascondimento del senso sta il coraggio dell’operazione sostenuta da Gianluca Arcopinto, produttore atipico e scopritore di talenti come
Davide Barletti, regista di
Fine pena mai.
Tra surrealismo e situazionismo, la stessa storia è raccontata con tre media diversi. Una prova di come l’arte stia vivendo una fase onnivora, che la critica americana Rosalind Krauss ha teorizzato in
L’arte nell’era postmediale: l’artista opera in uno spazio aperto che si alimenta nella relazione tra progetto artistico e libertà espressiva.
La cena di Emmaus si presenta, quindi, come ricettacolo di connessioni mobili, che invitano lo spettatore a un’attività dinamica, capace di generare una molteplicità di sguardi e visioni. Questa varietà di prospettive è tipica del linguaggio cinematografico, fatto di diversi punti di vista e ritmi.
I cambiamenti di misura, angolazione e scala della visione sono riprodotti nell’allestimento, fissando riproduzioni di frame del film, testi tratti dalla sceneggiatura a varie altezze sulle pareti. Josè Corvaglia sembra aderire al sentimento diffuso tra cineasti come
Chantal Akerman e
Jonas Mekas, cioè che il cinema sia un’invenzione senza futuro. Ackerman sintetizza così questa pulsione verso la scoperta: “
La terra che si possiede è sempre segno di barbarie e sangue, mentre la terra che si attraversa senza impadronirsene fa pensare a un libro”.
Proprio dal desiderio di raccontare in forma non realistica il conflitto israelo-palestinese nasce
La cena di Emmaus. Questa pulsione “politica” è particolarmente evidente nel libro frammentato e ricomposto più volte lungo il percorso espositivo. Si tratta di una graphic novel elaborata su soggetto e disegni, quadri e fotogrammi che costituiscono la struttura del film stesso. In un breve racconto angoscioso, l’autore mescola suggestioni, paure e speranze che corrono lungo il desiderio di trovare un inatteso territorio di pace; chissà, da qualche parte, nei pressi di Emmaus.