Lo scorso 23 febbraio è stato consegnato il “Premio Pino Pascali” ad
Adrian Paci (Scutari, 1969; vive a Milano). Contrario all’immaginario comune dell’artista migrante, in Paci l’“albanesità” va oltre il semplice aspetto individuale o lo stereotipo, diventando metafora universale, occasione per curiosare nelle identità messe in crisi, cristallizzare momenti di realtà in via d’estinzione, albanese o di qualsiasi altra società rurale non pienamente emancipata.
Paci, che giunge a Milano nel 1992 grazie a una borsa di studio per approfondire “Arte e Liturgia”, si affranca subito dal realismo comunista per aprirsi allo studio dell’“arte degenerata”. Nel 1993 la lettura de
Lo spirituale nell’arte di
Kandinskij e le conferenze a Tirana di Achille Bonito Oliva, reduce dalla “sua” Biennale, lo inducono a cambiare rotta, mantenendo tuttavia l’impianto classico, evidente nell’equilibrio della sua produzione, pittorica, filmica o scultorea. Opere che il Palazzo mette in mostra con generosità, a partire da
Home to go (acquisita per la collezione civica), autoritratto in cui l’artista porta sulle spalle un tetto rovesciato. Il tema è quello della casa, ricorrente nei suoi lavori anche come sfondo architettonico, perché in essa si riconosce l’“identità del gruppo”, la famiglia. Per Paci, oggi padre di due bambine, quel tetto è anche dovere, rifiuto del disimpegno.
In
Believe me I am an artist ricostruisce l’equivoco dello scambio di alcuni scatti per immagini pedo-pornografiche. Una sua scelta frequente, infatti, è quella di far recitare i bambini per la loro capacità di stare a cavallo fra “la tragedia e il gioco”. Li ritroviamo, con frammenti di specchio, a riflettere i raggi del sole in
Per Speculum, opera dal grande
appeal malinconico. La luce, il calore: elementi di
Turn on, raffigurazione monumentale e senza patetismi di disoccupati, ognuno con una lampada alimentata da un generatore elettrico, sintesi dell’“energia esistenziale” insita anche nell’emarginato (come per la stufa impugnata dall’extracomunitario in
Sun di
Sislej Xhafa).
Facce scavate, ad acquerello bianco e nero, sono in
Workers, saggio di un complesso lavoro di dialogo -il
Vangelo secondo Pasolini– con i film cult del nostro grande poeta e regista.
Pasolini sembra rivelare a Paci la “realtà che stava cercando”; ma l’artista la decostruisce e ripropone con espressività e segno propri, liberamente. E vibrando un colorismo sfrenato, come in opere di diverso impatto emotivo. In
Flash Mercedes, soprattutto, questo “status simbol” si fa scrigno di un sanguinolento agnello sacrificale.
In anteprima europea, la mostra presenta anche l’intenso video
Centro di permanenza temporanea, girato in California, permeato dai temi ricorrenti in Paci come in tutta l’arte balcanica. Ma i sapienti tagli fotografici, con vari punti di vista perpendicolari alla scena centrale, la capacità di sintesi, la volontà ritrattistica, il lento scorrere del tempo, l’insistenza su quei volti multietnici sofferti, fanno la differenza.