Sull’onda della
retrospettiva sul Novecento appena conclusasi nel palazzo brindisino, l’antologica su
Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano, 1961) prosegue
nell’approfondimento sul secolo appena trascorso e sui suoi maestri.
Sironi è stato una
delle figure più importanti del XX secolo, avendo indagato e approfondito
praticamente tutte le correnti che in esso nacquero e si svilupparono, partendo
dal Futurismo, al quale si avvicinò giovanissimo. La Metafisica influenzò il
suo ritorno alla tradizione, anche nell’uso delle tecniche artistiche e
nell’impostazione della sua teoria del mito come “ancoraggio” al passato.
Da un lato, quindi, il
passato come fonte di sicurezza e garanzia di moralità, secondo l’estetica del
gruppo Novecento,
del quale fu uno dei fondatori; dall’altro il futuro,
rappresentato dalle città e dalla macchina, come forzato sviluppo della società
al quale l’artista si adegua, ma che non ama.
Probabilmente da
questo incontro/scontro di temi nasce il duplice filone sul quale si basa anche
l’impianto della mostra, che raccoglie oltre cento opere dell’artista: la
modernità, infatti, si affaccia immediatamente con i paesaggi urbani, desolati
e spogli, delle prime sale. Pochi colori, uso di grigio e marrone a profusione,
a rappresentare la cupezza e il tetro dell’esistenza contemporanea nelle città,
evocativamente contrapposta alla vita dei campi.
Qualche nota di colore
compare nelle opere di stampo più decisamente pubblicitario, come i manifesti
della
Rivista
illustrata del Popolo d’Italia, realizzati con l’ausilio della tecnica del collage,
fortemente recanti l’impronta futurista e d’impatto visivo decisamente più
accattivante.
Il passato grandioso e
la teoria del mito invadono le sale centrali, con opere di grande formato
appartenenti al periodo dei dipinti a più pannelli (che in molti casi si
tradussero anche in affreschi di formato gigante): le figure di cavalieri
stilizzati a cavallo, il corpo dell’uomo, l’eroe sono gli spunti fondamentali
della sua teorizzazione. Il mito è talmente invasivo che non basta più una tela
per raffigurarlo: servono le pareti degli edifici, parallelamente a quanto
accadeva negli stessi anni in Sudamerica, ma con matrice politico-culturale
completamente differente, benché l’intento fosse simile, cioè quello di parlare
alle masse.
Dal lato opposto, le
ultime sale sono incentrate sul lavoro degli uomini. Piccole opere con figure
di lavoratori che rappresentano la dignità dell’uomo, del passato e del
presente: solo il lavoro salverà il mondo, secondo Sironi. In tutto questo, le
figure di donne sono rarissime: qualche immagine materna di madri con bambini,
ma sono fondamentalmente gli uomini che portano avanti l’universo sironiano.
Eppure, proprio nei
tocchi di blu diffuso, che si ritrovano soprattutto nelle opere in cui
compaiono le donne con figli, si intravede un velo di speranza.
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Sicuramente andrò presto a vedere le opere di Mario Sironi a Brindisi. Sembra molto interessante. Ciao