Forse poca attenzione è sinora stata riservata dalla storiografia ufficiale a Luigi Boille (1926-2015). Sorte immeritata per l’artista – pordenonese di nascita, romano d’adozione, parigino d’elezione – molto amato da grandi come Giulio Carlo Argan che lungamente si spese in suo favore e Carlo Cardazzo che lo espose tra i primi nella sua galleria milanese. Solo per citare alcuni nomi illustri. Appartato, schivo, per niente mondano, Boille perseguì sempre una propria ricerca artistica senza compromessi, fedele all’urgenza creativa. Lo dimostra il fatto che, dopo i rigorosi studi all’Accademia di Belle Arti di Roma, attratto dalle sperimentazioni d’oltralpe abbandonò l’Italia e si trasferì nella capitale francese. Così facendo Boille si sfilò dalla diatriba politicizzata che vedeva contrapposti gli astrattisti ai figurativi e che stava galvanizzando la scena culturale italiana del secondo Dopoguerra.
Come ricordato dalla curatrice Silvia Pegoraro, Boille fece una scelta coraggiosa ed eretica. Non certo per sottrarsi all’impegno militante ma per andare incontro a quella via terza, la via informel parigina, che sentiva intimamente più vicina a sé. Una pittura quella informale, altra – per dirla con Michel Tapié che fu uno dei suoi maggiori estimatori – che si svincolava completamente da un referente oggettuale esterno, rifiutando di essere mimesi della realtà, e che mettendo la materia pittorica stessa, anche bruta e informe, in quadro.
Per Boille si trattava di tentare un superamento della pittura ed una sublimazione del linguaggio pittorico tradizionalmente inteso, andando oltre le dicotomie storiche, per fare proprio un discorso più emozionale e a tratti trascendentale della creazione e della ricezione dell’opera d’arte. Una ricerca quella di Boille, non del tutto estranea né a certe fascinazioni surrealiste né ad alcune istanze gestuali dell’espressionismo astratto americano. Ed è proprio la gestualità segnica a prendere il sopravvento nelle tele del Boille più maturo, fino a diventare scrittura nervosa e grafismo filamentoso, in un gioco di sottili cromatismi via via sempre più autografi e originali. Opere quelle di Luigi Boille, in cui non del tutto estranea è anche la poetica spazialista dell’amico Lucio Fontana, con cui condivise il rovello sulla questione dello spazio: inteso come luce, vuoto, silenzio.
Negli anni Sessanta Boille è di fatto partecipe nella scena internazionali, parte di quella che Crispolti ha definito la nebulosa informale. Lo dimostra la sua presenza ad esempio all’International Festival Osaka/Tokyo del 1958 come al Guggenheim International Award del ’64, o alla Biennale veneziana del 1966. Paradossalmente però al suo rientro in Italia nel 1967, Boille si ritrovò isolato dai circuiti delle gallerie e dal panorama artistico italiano – ormai dominato dall’Arte Povera e dal Minimalismo – e proseguì la sua ricerca, solitaria e di stringente coerenza. La personale retrospettiva lui dedicata alla Galleria Pizzinato di Pordenone – con oltre 140 opere esposte provenienti dall’Archivio romano dell’artista – si propone di metterne in luce l’opera misconosciuta e tentare una debita ricontestualizzazione critica.
Giada Centazzo
mostra visitata il 26 giugno 2016
Dal 12 giugno al 02 ottobre 2016
Luigi Boille. Il segno infinito.
Galleria Armando Pizzinato
viale Dante 33, Pordenone
Orari: da mercoledì a domenica dalle 15.00 alle 19.00
Info: attivitaculturali@comune.pordenone.it