Dopo
Studio Azzurro (Premio Pascali 2005) e
Lida Abdul (Premio Pascali 2006), è Giovanni Albanese, vincitore nel 2002, a ipotizzare una grande installazione che va ad arricchire la collezione del Museo Pino Pascali, appetitoso pretesto per una mostra dedicata alla luce e al suo contrario, che Rosalba Branà lega in catalogo al simbolismo tra vita e morte (da
Caravaggio a
Bill Viola, da
Olafur Eliasson a Studio Azzurro). Ma per la mostra di Polignano si guarda più al territorio, ad artisti autoctoni e nazionali che rileggono il tema sempreverde con un velo di malinconia crepuscolare.
La nuova acquisizione, l’emblematica
Eclissi di
Giovanni Albanese (Bari, 1955; vive a Roma) è articolata per circa cinque metri. Sono raggiere di lampadine a mo’ di fiammelle votive, organizzate anche attorno a un grande “buio” circolare (un disco in ferro brunito) come tremuli lingue infuocate. Un’opera affine al gusto neoclassico e mediterraneo di
Pascali, motivo che gli valse il riconoscimento polignanese. Il poliedrico Albanese, tuttavia, qui sembra rinunciare all’ironia che contraddistingue le sue operazioni installative o di re-invezione di oggetti quotidiani, per una poetica della caducità.
D’impianto classico, espressione di un’estetica misticheggiante sono invece i due raffinati “kuros” di vetro e led di
Miki Carone (Bari, 1952; vive a Polignano): una comunicazione luminosa e mentale, un paradossale dialogo fra tradizione e futuro prossimo, incarnati da un Buddha e da un’Andromeda post-moderni.
Francesco Impellizzeri (Trapani, 1960; vive a Roma e Madrid) sceglie l’artificio di una grottesca ribalta: in
Diva Divina, una sgraziata modella e il suo doppio dalla gestualità forzata sono su un set in cui tutto è fasullo, la luce ambigua delle ombre, le nude cornici all’interno e quella in pvc che inquadra la foto. Il blu dell’infinito connota il lightbox di
Giulio De Mitri (Taranto, 1952), uno dei più seri artisti di ricerca pugliesi, col suo percorso incentrato sul tema dei concetti “materiale e immateriale”.
La sua luce è scelta tra le nuance dell’azzurro, sinonimo di sacralità e di viaggio verso la dimensione spirituale; la bimba/angelo è chiusa nella scatola magica che De Mitri costruisce con una innovativa tecnica di retro-illuminazione, accentuandone volumetria e suggestione.
Dove non c’è la luce, c’è l’ombra. Nel ciclo
Ombre assolute di
Massimo Ruiu (San Severo, 1961; vive a Roma e Monopoli) un gioco percettivo stacca l’ombra dal soggetto, rendendola “antimateria” autonoma, un intrigante buco nero dal taglio geometrico fluttuante. Il buio incubo, paura, mistero: è nella scultura
Azzurro di
Carlo De Meo (Menarola, Latina, 1966), una figurina attonita che scruta dal profondo di una buca il chiarore esterno; nelle ombre proiettate sulle pareti di un cascinale, una visione sfocata tratta dal video di
Elisa Laraia (Potenza, 1973; vive a Bologna); nell’evanescenza delle
silhouette arcaiche incise su cristallo da
Rosemarie Sansonetti (Bari, 1965). Più libera da implicazioni cerebrali, per questo decisamente fresca, è
Holy Solomon di
Daniela Curbascio (Bari, 1960). Elaborazione di un’immagine retrò in cui l’inserimento di led in serie tra le labbra, spiazzante apparecchio ortodonzistico, fanno di quest’opera un garbato aggiornamento di atmosfere vintage.