La mostra nomade Desert, passata per il Nord Africa (Tunisia, Marocco, Libia, Egitto) e l’Italia (Museo Archeologico di Capocolonna a Crotone), rivisitata e arricchita di opere inedite, arriva in Puglia grazie all’intervento dell’Assessorato regionale al Mediterraneo e del Comune di Sannicandro di Bari, che ha fatto del Castello svevo un’attiva “casa delle culture e delle arti”.
Qui è ospitato, con i suoi “deserti della pittura, immagini emblematiche di un luogo sconfinato, orizzontale ed infinito” -come scrive Achille Bonito Oliva nel testo introduttivo del catalogo- Mario Schifano (Homs -Libia,1934 / Roma, 1998). Un artista che, nonostante la cifra sperimentale della sua quarantennale ricerca, espressa mediante una personale “trasformazione della quantità del gesto nella qualità della forma”, non ha mai perso la sua connotazione mediterranea.
Possono considerarsi questi i punti cardine dell’esposizione -organizzata da Sauro Bocchi in collaborazione con l’Archivio Mario Schifano- di una produzione apparentemente seriale, che procede per tematiche, in cui la “pittura” è assunta nella condizione di mass-medium.
L’allestimento nelle sale del castello è alternativo: fari illuminano i quadri dal basso, tutti di grande formato, collocati nelle nicchie delle pareti o adagiati sul pavimento cosparso di ciottoli marini. Al centro del salone più grande si ergono due decorative palme di metallo, intitolate Costruzione per oasi.
Nelle pitture ispirate ad atmosfere paesaggistiche orientali è il dettaglio che campeggia bianco, al negativo, sulle tele più eteree “spruzzate” di colori acidi, o appare tracciato e sgocciolato con forza animistica se diviene soggetto attivo. L’allusione è memore dei primi “paesaggi anemici” fatti di sagome, parole, frammenti (in special modo le numerose Palme dipinte negli anni Sessanta e Settanta, prestiti di collezioni private milanesi e parmensi), spunti spesso accostati a cieli stellati e ambienti marini in altri dipinti esposti e
In altre tele la forma viene costruita scorporandola dal fondo cupo, come in Sipario. Palcoscenico naturale della Collezione Marco Giuseppe Schifano. Oppure i soggetti sono come omogeneizzati al contesto, secondo quel caratteristico ordine arbitrario ed “associativo”. Come in Fondo marino, della Collezione Gionata de Rosa.
Anche la firma –elemento che, insieme alla specificità delle tele usate, si è rivelato fondamentale per la complessa attribuzione dell’incontinente produzione dell’artista– si snoda fluida e leggibile all’interno dei dipinti, frequentemente “dedicati”. Sia quando campeggiano nomi in stampatello o motti evocativi, sia in ritratti incorniciati dall’ambiente naturale (nello smalto e acrilico su tela del collezionista Carlo Marchiolo).
La selezione delle opere di varia datazione, attesta quanto sia stato coerente il percorso creativo di Schifano. Da “piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto” (così Goffredo Parise lo definì agli esordi, nel ’65), più recentemente sarà accostato a Dionisio, “metafora della rigenerazione, della ciclicità della vita e della natura stessa, presa come campo di metamorfosi e trasformazione perenne” (Achille Bonito Oliva).
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